MINIERE, GROTTE, EREMI

Ex Membro
MINIERE, GROTTE, EREMI

Miniere di zolfo

Le miniere nel cesenate: Miniera di Formignano Miniera di Monteaguzzo Miniera di Valdinoce Miniera di Sant’Apollinare Miniera di Venzi-Rovereto Miniera di Montevecchio Miniera Boratella 1 Miniera di Boratella 2 Miniera di Boratella 3 Miniera di Piavola Miniera di Ca’ di Guido Miniera di Piaia e Paderno Miniera di Campitello Mi ieri di Perticara Miniera del Capannaccio
Va inteso sotto la denominazione “Formignano” il complesso delle miniere “Busca-Montemauro” e “Luzzena-Formignano” che in origine erano coltivazioni ben distinte ma di fatto con l’ampliamento delle gallerie sotteranee diventano comunicanti fra di loro. FORMIGNANO (in Comune di Cesena) Si ha notizia delle prime escavazioni nel 1556. Nel 1816 il conte G. Cisterni, originario di Ancona, ma nato e residente a Rimini, personaggio di larghe vedute, riusciva a rastrellare ingenti capitali e ad acquistare le miniere di Perticara e Marazzana nel Montefeltro e Formignano nel Cesenate, costruiva inoltre, a Rimini, uno stabilimento chimico ed una raffineria di zolfo, che era rifornito quasi esclusivamente dalle miniere prima indicate. In data 3/9/1829, erano impiegati nelle tre miniere del Conte Cisterni circa 500 dipendenti, ed occorrevano mensilmente “300 birocciari” per il trasporto degli zolfi a Cesena ed a Rimini. Ma i debiti contratti per sostenere le spese di modernizzazione degli impianti lo portavano ben presto alla bancarotta ed alla chiusura delle miniere nel febbraio del 1837. Due industriali francesi del settore tessile, Agostino Picard di Avignone e Carlo Pothier dei Vosgi, frequentatori del mercato di Cesena per approvvigionarsi di acido solforico, necessario alle loro industrie manifatturiere, acquistavano, tramite la Soc. Augustin Picard & C., nel luglio del 1838, per 700.000 franchi, le miniere possedute dal Conte Cisterni. Nel 1840 venivano portati avanti i lavori per un pozzo verticale a forma quadrata e di una profondità di m. 120. La società francese, sebbene avesse raggiunto una produzione di zolfo di 2.700.000 libbre anno (circa 1.100 tonnellate), non chiudeva i bilanci in attivo e già nel 1841 non era pi in grado di pagare ne gli operai ne i creditori, per cui, il 3/8/1842, il Tribunale di Rimini ne dichiarava il fallimento. Il 21/2/1843 fu costituita a Bologna la società in accomandita “Nuova Società delle Miniere Solfuree di Romagna”, che acquistò le miniere della fallita società francese. I principali azionisti furono i fratelli Pizzardi, Rasori, Carega, Antonio Zanolini, Marco Minghetti, futuro primo ministro dello stato italiano nel marzo 1863, e per cinque azioni anche il compositore Gioacchino Rossini. Il 14/2/1855 la suddetta società si trasformava in società anonima con un capitale sociale di lire 1.170.000, portato nel 1863 a lire 2.860.000 e con la nuova denominazione “Società delle Miniere Solfuree di Romagna” e ricevendo, tramite regolare atto 8/5/1857, la concessione dalla Camera Apostolica, non senza contrasti ed opposizioni. Dopo l’unità d’Italia, 1861, veniva di nuovo messa in discussione il principio della demanialità delle miniere; addirittura nel 1862 il ministro dell’Agricoltura ed Industria, Gioacchino Pepoli, elaborava un tentativo, peraltro fallito, d’unificare la legislazione delle miniere sulla base delle leggi precedenti in atto nel Regno delle due Sicilie ed in Toscana, che prevedevano essere la proprietà delle miniere in mano ai possidenti dei terreni sovrastanti, escludendo qualsiasi demanialità. Un fitto carteggio, all’inizio del 1863, fra il gerente della Società, avv. Zanolini ed il Ministero dell’Agricoltura ed Industria, insediato ancora a Torino, portava ad una serie di controlli ed ispezioni da parte del Corpo Reale delle Miniere. Notizie dettagliate dell’ing. Giordano, che relazionava il 16/3/1863 al ministro delle finanze Quintino Sella, sulle miniere di Busca, Formignano e Montefeltro, dava un quadro preciso e dettagliato della situazione. Azione della Società delle Miniere Solfuree di Romagna con sede a Bologna, proprietaria delle miniere di Formignano e Perticara. Nel 1896 la Società bolognese, a seguito della persistente crisi dell’industria zolfifera, era messa in liquidazione e l’attività d’estrazione andava avanti con alterni tentativi di gestione cooperativa da parte di alcuni impiegati ed operai, sin quando la Società Luigi Trezza, poi divenuta Società anonima Miniere Solfuree Trezza-Albani di Romagna, ne rilevava la proprietà nel 1899. Nel 1917, durante la prima guerra mondiale, l’ing. Guido Donegani, per conto della Soc. Montecatini, acquistava tutte le concessioni della Società Trezza-Albani mantenendo, in sostanza, in funzione le sole miniere di Formignano e Perticara. Il 29/3/1919, grazie all’interessamento dell’on.le Comandini e del sig. Armando Bartolini, responsabile sindacale dei minatori della Camera del Lavoro di Cesena, veniva raggiunto l’accordo con la Società Montecatini per fissare l’orario di lavoro in otto ore giornaliere. Negli anni 1922 e 1923, per effetto di una grave crisi dell’industria zolfifera, la miniera di Formignano veniva momentaneamente chiusa e così pure, per un breve periodo, durante il secondo conflitto mondiale. Agli inizi del secolo vi erano in attività 44 forni Gill, 2 calcheroni ed uno doppione per la fusione dello zolfo ed una teleferica, di circa 1 km., che dalla Busca trasportava il materiale nella località delle “Aie” di Formignano. Negli anni 1953-54 la Montecatini, nel tentativo d’esplorare una vasta zona all’estremità della galleria dello 11 livello, aprì un nuovo pozzo (nuovo pozzo Montemauro), in località Tessello e situato a poco più di 3 km. verso nord-ovest dal piede della discenderia d’estrazione di Formignano, anche questo tentativo non dava grossi risultati in quanto la potenza dello strato, di m. 0,60, era debole e di poca consistenza. La chiusura definitiva della miniera era sancita nel 1962 per esaurimento o, più precisamente, perché la lavorazione, a causa dell’impoverimento dello strato solfifero e della gran profondità raggiunta, era divenuta antieconomica. La produzione di zolfo grezzo fu stimata nel periodo dal 1861 al 1962 in 409.000 tonnellate, vi lavorarono in media 250 operai, la punta massima s’ebbe nel 1910 con 441 lavoranti.
Parco Naturale Miniere di Formignano
Via Razzolo
Va inteso sotto la denominazione “Formignano” il complesso delle miniere “Busca-Montemauro” e “Luzzena-Formignano” che in origine erano coltivazioni ben distinte ma di fatto con l’ampliamento delle gallerie sotteranee diventano comunicanti fra di loro. FORMIGNANO (in Comune di Cesena) Si ha notizia delle prime escavazioni nel 1556. Nel 1816 il conte G. Cisterni, originario di Ancona, ma nato e residente a Rimini, personaggio di larghe vedute, riusciva a rastrellare ingenti capitali e ad acquistare le miniere di Perticara e Marazzana nel Montefeltro e Formignano nel Cesenate, costruiva inoltre, a Rimini, uno stabilimento chimico ed una raffineria di zolfo, che era rifornito quasi esclusivamente dalle miniere prima indicate. In data 3/9/1829, erano impiegati nelle tre miniere del Conte Cisterni circa 500 dipendenti, ed occorrevano mensilmente “300 birocciari” per il trasporto degli zolfi a Cesena ed a Rimini. Ma i debiti contratti per sostenere le spese di modernizzazione degli impianti lo portavano ben presto alla bancarotta ed alla chiusura delle miniere nel febbraio del 1837. Due industriali francesi del settore tessile, Agostino Picard di Avignone e Carlo Pothier dei Vosgi, frequentatori del mercato di Cesena per approvvigionarsi di acido solforico, necessario alle loro industrie manifatturiere, acquistavano, tramite la Soc. Augustin Picard & C., nel luglio del 1838, per 700.000 franchi, le miniere possedute dal Conte Cisterni. Nel 1840 venivano portati avanti i lavori per un pozzo verticale a forma quadrata e di una profondità di m. 120. La società francese, sebbene avesse raggiunto una produzione di zolfo di 2.700.000 libbre anno (circa 1.100 tonnellate), non chiudeva i bilanci in attivo e già nel 1841 non era pi in grado di pagare ne gli operai ne i creditori, per cui, il 3/8/1842, il Tribunale di Rimini ne dichiarava il fallimento. Il 21/2/1843 fu costituita a Bologna la società in accomandita “Nuova Società delle Miniere Solfuree di Romagna”, che acquistò le miniere della fallita società francese. I principali azionisti furono i fratelli Pizzardi, Rasori, Carega, Antonio Zanolini, Marco Minghetti, futuro primo ministro dello stato italiano nel marzo 1863, e per cinque azioni anche il compositore Gioacchino Rossini. Il 14/2/1855 la suddetta società si trasformava in società anonima con un capitale sociale di lire 1.170.000, portato nel 1863 a lire 2.860.000 e con la nuova denominazione “Società delle Miniere Solfuree di Romagna” e ricevendo, tramite regolare atto 8/5/1857, la concessione dalla Camera Apostolica, non senza contrasti ed opposizioni. Dopo l’unità d’Italia, 1861, veniva di nuovo messa in discussione il principio della demanialità delle miniere; addirittura nel 1862 il ministro dell’Agricoltura ed Industria, Gioacchino Pepoli, elaborava un tentativo, peraltro fallito, d’unificare la legislazione delle miniere sulla base delle leggi precedenti in atto nel Regno delle due Sicilie ed in Toscana, che prevedevano essere la proprietà delle miniere in mano ai possidenti dei terreni sovrastanti, escludendo qualsiasi demanialità. Un fitto carteggio, all’inizio del 1863, fra il gerente della Società, avv. Zanolini ed il Ministero dell’Agricoltura ed Industria, insediato ancora a Torino, portava ad una serie di controlli ed ispezioni da parte del Corpo Reale delle Miniere. Notizie dettagliate dell’ing. Giordano, che relazionava il 16/3/1863 al ministro delle finanze Quintino Sella, sulle miniere di Busca, Formignano e Montefeltro, dava un quadro preciso e dettagliato della situazione. Azione della Società delle Miniere Solfuree di Romagna con sede a Bologna, proprietaria delle miniere di Formignano e Perticara. Nel 1896 la Società bolognese, a seguito della persistente crisi dell’industria zolfifera, era messa in liquidazione e l’attività d’estrazione andava avanti con alterni tentativi di gestione cooperativa da parte di alcuni impiegati ed operai, sin quando la Società Luigi Trezza, poi divenuta Società anonima Miniere Solfuree Trezza-Albani di Romagna, ne rilevava la proprietà nel 1899. Nel 1917, durante la prima guerra mondiale, l’ing. Guido Donegani, per conto della Soc. Montecatini, acquistava tutte le concessioni della Società Trezza-Albani mantenendo, in sostanza, in funzione le sole miniere di Formignano e Perticara. Il 29/3/1919, grazie all’interessamento dell’on.le Comandini e del sig. Armando Bartolini, responsabile sindacale dei minatori della Camera del Lavoro di Cesena, veniva raggiunto l’accordo con la Società Montecatini per fissare l’orario di lavoro in otto ore giornaliere. Negli anni 1922 e 1923, per effetto di una grave crisi dell’industria zolfifera, la miniera di Formignano veniva momentaneamente chiusa e così pure, per un breve periodo, durante il secondo conflitto mondiale. Agli inizi del secolo vi erano in attività 44 forni Gill, 2 calcheroni ed uno doppione per la fusione dello zolfo ed una teleferica, di circa 1 km., che dalla Busca trasportava il materiale nella località delle “Aie” di Formignano. Negli anni 1953-54 la Montecatini, nel tentativo d’esplorare una vasta zona all’estremità della galleria dello 11 livello, aprì un nuovo pozzo (nuovo pozzo Montemauro), in località Tessello e situato a poco più di 3 km. verso nord-ovest dal piede della discenderia d’estrazione di Formignano, anche questo tentativo non dava grossi risultati in quanto la potenza dello strato, di m. 0,60, era debole e di poca consistenza. La chiusura definitiva della miniera era sancita nel 1962 per esaurimento o, più precisamente, perché la lavorazione, a causa dell’impoverimento dello strato solfifero e della gran profondità raggiunta, era divenuta antieconomica. La produzione di zolfo grezzo fu stimata nel periodo dal 1861 al 1962 in 409.000 tonnellate, vi lavorarono in media 250 operai, la punta massima s’ebbe nel 1910 con 441 lavoranti.
Miniera di Monteaguzzo in Comune di Cesena La concessione mineraria interessava diversi terreni posti nelle parrocchie di Monteaguzzo, Ardiano e S. Lucia. I primi lavori d’escavazione iniziavano nel 1862, da parte di Natale Dellamore associato con Giuseppe Prosperini ed alla ditta Mazzoli Cicognari, con una produzione 260 q.li di minerale e con l’impiego di 50 lavoranti. I lavori, sospesi nel 1865, venivano ripresi nel 1891 dalla ditta Giuseppe Gualtieri che sviluppava notevoli esplorazioni e limitate coltivazioni sino al 1903, quando, di nuovo, erano abbandonati per l’esiguità e la povertà dello strato zolfifero. Infine, negli anni dal 1926 al 1930, la società Zolfi nelle località “Ca’ Marchetti e Ca’ Magalotti” iniziava delle gallerie incontrando le precedenti vecchie lavorazioni ed identificando uno strato di minerale di m. 0,60, alquanto povero per il proseguimento dei lavori per cui le ricerche venivano definitivamente abbandonate.
Monteaguzzo
Miniera di Monteaguzzo in Comune di Cesena La concessione mineraria interessava diversi terreni posti nelle parrocchie di Monteaguzzo, Ardiano e S. Lucia. I primi lavori d’escavazione iniziavano nel 1862, da parte di Natale Dellamore associato con Giuseppe Prosperini ed alla ditta Mazzoli Cicognari, con una produzione 260 q.li di minerale e con l’impiego di 50 lavoranti. I lavori, sospesi nel 1865, venivano ripresi nel 1891 dalla ditta Giuseppe Gualtieri che sviluppava notevoli esplorazioni e limitate coltivazioni sino al 1903, quando, di nuovo, erano abbandonati per l’esiguità e la povertà dello strato zolfifero. Infine, negli anni dal 1926 al 1930, la società Zolfi nelle località “Ca’ Marchetti e Ca’ Magalotti” iniziava delle gallerie incontrando le precedenti vecchie lavorazioni ed identificando uno strato di minerale di m. 0,60, alquanto povero per il proseguimento dei lavori per cui le ricerche venivano definitivamente abbandonate.
Miniera di Valdinoce in Comune di Teodorano e poi Meldola La miniera di Valdinoce era in attività già nel 1500, allorché il fiorentino Paolo Antonio Valori si impegnava a sfruttarla assieme ad altre miniere del cesenate, dietro pagamento di 4000 libbre di zolfo alla Camera Apostolica. La concessione nel 1862 era in mano ad Alessandro Flori, Marzoli Federico, Saragoni Giuseppe e Turci Angelo, che nel 1867 avevano praticato esplorazioni e sondaggi nel letto del Rio Paladino con una galleria lunga 1200 metri, incontrando numerose tracce d’antichi lavori. Nel 1872 la miniera passava in proprietà al marchese Alessandro Albicini, ma l’estrazione dello zolfo era alquanto limitata e la coltivazione s’alternava a periodi di completo abbandono. Nel 1894 la produzione si intensificava e ciò sino al 1906, quando un’invasione di acque faceva abbandonare nuovamente i lavori, che riprendevano nel 1919 dalla società “Zolfi”, nuova proprietaria, nella località denominata “La Rossa”, scavandovi una particolare discenderia. Dal 1924 al 1928 sia nei cantieri di “Paladino” che nella “La Rossa” la produzione raggiungeva le mille tonnellate di zolfo grezzo e con l’impiego di circa 180 operai. La chiusura definitiva avveniva all’inizio del 1929, anche a seguito di gravi incidenti in galleria dovuti allo scoppio di gas grisou. La testimonianza orale del minatore Zignani Quinto Alvaro di un incidente, avvenuto nella miniera del “Paladino” nel novembre 1927, dove trovava la morte suo padre Ugo, sorvegliante, resta una pagina quanto mai drammatica nella storia della miniera.
Valdinoce
Miniera di Valdinoce in Comune di Teodorano e poi Meldola La miniera di Valdinoce era in attività già nel 1500, allorché il fiorentino Paolo Antonio Valori si impegnava a sfruttarla assieme ad altre miniere del cesenate, dietro pagamento di 4000 libbre di zolfo alla Camera Apostolica. La concessione nel 1862 era in mano ad Alessandro Flori, Marzoli Federico, Saragoni Giuseppe e Turci Angelo, che nel 1867 avevano praticato esplorazioni e sondaggi nel letto del Rio Paladino con una galleria lunga 1200 metri, incontrando numerose tracce d’antichi lavori. Nel 1872 la miniera passava in proprietà al marchese Alessandro Albicini, ma l’estrazione dello zolfo era alquanto limitata e la coltivazione s’alternava a periodi di completo abbandono. Nel 1894 la produzione si intensificava e ciò sino al 1906, quando un’invasione di acque faceva abbandonare nuovamente i lavori, che riprendevano nel 1919 dalla società “Zolfi”, nuova proprietaria, nella località denominata “La Rossa”, scavandovi una particolare discenderia. Dal 1924 al 1928 sia nei cantieri di “Paladino” che nella “La Rossa” la produzione raggiungeva le mille tonnellate di zolfo grezzo e con l’impiego di circa 180 operai. La chiusura definitiva avveniva all’inizio del 1929, anche a seguito di gravi incidenti in galleria dovuti allo scoppio di gas grisou. La testimonianza orale del minatore Zignani Quinto Alvaro di un incidente, avvenuto nella miniera del “Paladino” nel novembre 1927, dove trovava la morte suo padre Ugo, sorvegliante, resta una pagina quanto mai drammatica nella storia della miniera.
Miniera di Sant’Apollinare in Comune di Teodorano poi Meldola Questo giacimento non era che la continuazione di quello confinante della miniera “Valdinoce”. La concessione veniva accordata al Sig. Primo Bertozzi, nel 1908, quando raggiunse, con una discenderia di m. 223, lo strato coltivabile. Quest’ultimo era di media consistenza, variando da uno spessore di m. 0,50 a 1,20, determinando una produzione modesta ed uno sfruttamento a fasi alterne nei pochi anni d’apertura, va precisato, inoltre, anche la gran difficoltà da parte dei minatori che dovevano stare o seduti o in ginocchio nello svolgimento del proprio lavoro. Nel 1925 la Società Zolfi S.p.A. acquistava la concessione, iniziando nel 1926 una discenderia in località “Cà Pescara”, ma con risultati poco incoraggianti, nel 1929 la miniera era già abbandonata. Nel 1937 la Società Montecatini acquisiva il diritto di questa concessione senza mai iniziare una vera lavorazione industriale e rinunciandovi nel 1942. Nel 1951 la Società Zolfi tentava di riaprire la miniera, senza successo, aprendo cantieri per sondaggi di ricerca in prossimità dei vecchi affioramenti.
Miniera S. Apollinare
Via Chiesa di Casalbono
Miniera di Sant’Apollinare in Comune di Teodorano poi Meldola Questo giacimento non era che la continuazione di quello confinante della miniera “Valdinoce”. La concessione veniva accordata al Sig. Primo Bertozzi, nel 1908, quando raggiunse, con una discenderia di m. 223, lo strato coltivabile. Quest’ultimo era di media consistenza, variando da uno spessore di m. 0,50 a 1,20, determinando una produzione modesta ed uno sfruttamento a fasi alterne nei pochi anni d’apertura, va precisato, inoltre, anche la gran difficoltà da parte dei minatori che dovevano stare o seduti o in ginocchio nello svolgimento del proprio lavoro. Nel 1925 la Società Zolfi S.p.A. acquistava la concessione, iniziando nel 1926 una discenderia in località “Cà Pescara”, ma con risultati poco incoraggianti, nel 1929 la miniera era già abbandonata. Nel 1937 la Società Montecatini acquisiva il diritto di questa concessione senza mai iniziare una vera lavorazione industriale e rinunciandovi nel 1942. Nel 1951 la Società Zolfi tentava di riaprire la miniera, senza successo, aprendo cantieri per sondaggi di ricerca in prossimità dei vecchi affioramenti.
Miniera di Venzi-Rovereto in Comune di Teodorano e poi Cesena Già nel 1862, nella monografia della Provincia di Forlì, il Prefetto Campi elencava questa miniera in Comune di Teodorano ed indicava quali coltivatori i Sigg. Magalotti Francesco e Forlivesi, precisava pure che, sempre per il 1862, non si conoscevano i dati della “tenue” produzione di zolfo grezzo o nero, quello ottenuto dai calcheroni, in quanto in quell’anno i lavori si eseguivano irregolarmente su vecchie lavorazioni, mentre per l’anno 1863 la produzione era di 44 tonnellate e con l’impiego di 57 lavoranti. Nel marzo 1863 la miniera veniva ceduta al sig. Emilio Zoli ed al marchese Giovanni Battista Ginnasi Paolucci. Nella relazione dell’ing. Attilio Sangiorgi, del 2 settembre 1865, questa miniera era ricordata “come celebre per la sua pietra nera ed abbondante di minerale”, ma l’ing. Emilio Niccoli, del genio minerario di Ancona, nel 1869 e 1872 nei sui verbali di ricognizione precisava che trattasi di un giacimento povero con limitata potenza del minerale e che “… lascia poco sperare in un miglioramento avvenire”. Infatti pur alternando periodi di sfruttamento con quelli di inattività completi, la produzione massima s’aveva nel 1892 con 685 tonnellate di zolfo grezzo.
Via Rovereto
Via Rovereto
Miniera di Venzi-Rovereto in Comune di Teodorano e poi Cesena Già nel 1862, nella monografia della Provincia di Forlì, il Prefetto Campi elencava questa miniera in Comune di Teodorano ed indicava quali coltivatori i Sigg. Magalotti Francesco e Forlivesi, precisava pure che, sempre per il 1862, non si conoscevano i dati della “tenue” produzione di zolfo grezzo o nero, quello ottenuto dai calcheroni, in quanto in quell’anno i lavori si eseguivano irregolarmente su vecchie lavorazioni, mentre per l’anno 1863 la produzione era di 44 tonnellate e con l’impiego di 57 lavoranti. Nel marzo 1863 la miniera veniva ceduta al sig. Emilio Zoli ed al marchese Giovanni Battista Ginnasi Paolucci. Nella relazione dell’ing. Attilio Sangiorgi, del 2 settembre 1865, questa miniera era ricordata “come celebre per la sua pietra nera ed abbondante di minerale”, ma l’ing. Emilio Niccoli, del genio minerario di Ancona, nel 1869 e 1872 nei sui verbali di ricognizione precisava che trattasi di un giacimento povero con limitata potenza del minerale e che “… lascia poco sperare in un miglioramento avvenire”. Infatti pur alternando periodi di sfruttamento con quelli di inattività completi, la produzione massima s’aveva nel 1892 con 685 tonnellate di zolfo grezzo.
Miniera di Montevecchio in Comune di Cesena L’ubicazione del giacimento era molto vicino al fiume Savio e di fronte alla borgata Gallo di Borello. Le prime escavazioni iniziavano nel 1855 nei terreni acquistati da G. Zazzeri e N. Dellamore, commerciante di Cesena e personaggio fra i più importanti dell’industria zolfifera romagnola del secolo scorso, in parrocchia di Montevecchio e dove s’erano notati affioramenti superficiali di zolfo. La lavorazione continuava sino ai primi del 1861, quando il Dellamore cedeva la sua parte a Lodovico Ortalli Laurent di Parma, che rimaneva in società con il Zazzeri per un quinquennio. Nel dicembre 1872, la miniera era in mano a Zazzeri Raimondo (fu bibliotecario alla Malatestiana di Cesena e pubblicò nel 1887 il catalogo dei codici ivi esistenti, nonché una preziosa Storia di Cesena) e sindaci del fallimento Laurent, che cedevano le loro quote o carati a P. Moreschini, furono A. Albertarelli, G. Baravelli e N. Dellamore; quest’ultimi costituivano poi una società in partecipazione. I diritti di coltivazione s’estendevano su una superficie di 300 ettari e la miniera era formata da due impianti diversi, situati l’uno al piano del fiume Savio e l’altro nella località detta “Caminelli”. Dettagliate notizie ci derivano dall’ing. Emilio Sostegni, in data 14/7/1874 e mettono in luce la situazione della miniera ed i relativi costi di gestione. La produzione non toccava mai punte elevate, quella massima veniva raggiunta nel 1927 con 547 tonn. di zolfo grezzo e con l’impiego di 150 operai. Dal 1876 al 1878 la miniera era inattiva e dopo brevi riprese dal 1886 al 1895 era nuovamente abbandonata; nel 1919 il Sindacato Miniere Sulfuree di Romagna portava avanti la gestione con il suo Direttore, Sig. Aldi e gerente il Sig. Balilla Bertozzi, nel 1923 la concessione passava alla Società Nazionale Industria Zolfi sino al 1930, anno di chiusura definitiva.
Montevecchio
Miniera di Montevecchio in Comune di Cesena L’ubicazione del giacimento era molto vicino al fiume Savio e di fronte alla borgata Gallo di Borello. Le prime escavazioni iniziavano nel 1855 nei terreni acquistati da G. Zazzeri e N. Dellamore, commerciante di Cesena e personaggio fra i più importanti dell’industria zolfifera romagnola del secolo scorso, in parrocchia di Montevecchio e dove s’erano notati affioramenti superficiali di zolfo. La lavorazione continuava sino ai primi del 1861, quando il Dellamore cedeva la sua parte a Lodovico Ortalli Laurent di Parma, che rimaneva in società con il Zazzeri per un quinquennio. Nel dicembre 1872, la miniera era in mano a Zazzeri Raimondo (fu bibliotecario alla Malatestiana di Cesena e pubblicò nel 1887 il catalogo dei codici ivi esistenti, nonché una preziosa Storia di Cesena) e sindaci del fallimento Laurent, che cedevano le loro quote o carati a P. Moreschini, furono A. Albertarelli, G. Baravelli e N. Dellamore; quest’ultimi costituivano poi una società in partecipazione. I diritti di coltivazione s’estendevano su una superficie di 300 ettari e la miniera era formata da due impianti diversi, situati l’uno al piano del fiume Savio e l’altro nella località detta “Caminelli”. Dettagliate notizie ci derivano dall’ing. Emilio Sostegni, in data 14/7/1874 e mettono in luce la situazione della miniera ed i relativi costi di gestione. La produzione non toccava mai punte elevate, quella massima veniva raggiunta nel 1927 con 547 tonn. di zolfo grezzo e con l’impiego di 150 operai. Dal 1876 al 1878 la miniera era inattiva e dopo brevi riprese dal 1886 al 1895 era nuovamente abbandonata; nel 1919 il Sindacato Miniere Sulfuree di Romagna portava avanti la gestione con il suo Direttore, Sig. Aldi e gerente il Sig. Balilla Bertozzi, nel 1923 la concessione passava alla Società Nazionale Industria Zolfi sino al 1930, anno di chiusura definitiva.
Miniera Boratella 1 COMPRENSORIO CESENATE DAL 1861 AL 1962 Il GRUPPO MINIERE DI BORATELLA comprende le tre miniere di “Boratella I”, “Boratella II” e”Boratella III” situate sulla sponda del rio Boratella ed all’altezza della strada comunale per Le Ville di Monteiottone. Queste dunque, pur facenti parte dello stesso giacimento, erano autonome sotto il profilo tecnico e amministrativo. BORATELLA I in Comune di Mercato Saraceno Posta sulla sinistra del torrente Boratella ed alle falde del colle, che si innalza fra il torrente stesso ed il torrente Borello, interessa le parrocchie di Falcino, Piavola, Ciola e Monteiottone. La potenza dello strato coltivato era elevata, aggirandosi sui 4/5 m., certamente il giacimento più ricco scoperto in Romagna. Nel 1862 la concessione era in mano alla società di N. Dellamore, che la gestirà, passando da una fase iniziale di ricerca ad una di sviluppo con produzione intensa sino al 12/8/1869 quando, con rogito del notaio Trovanelli di Mercato Saraceno, sarà ceduta, in parti uguali, al conte Taveggi di Bologna ed all’ing. belga Giovanni de Rechter. In data 8/10/1871, con rogito notaio Cassinis di Torino, i nuovi proprietari vendevano la miniera a due banchieri: uno londinese Giovanni Stanisforth e l’altro parigino Martin Wolfang Scheyer. Con atto d’associazione veniva fondata, il 28/10/1871, la “Cesena Sulphur Company Limited”, con un capitale di 350.000 lire sterline (circa 8.750.000 di lire italiane), diviso in 35.000 azioni da 10 sterline l’una e con lo scopo d’acquistare dai due banchieri diverse miniere nel Cesenate. La compravendita veniva regolarizzata, il 28/4/1872, tramite la Banca Geisser di Torino, mandataria della società londinese, e subito dopo, il 18/7/1872, con regio decreto la Cesena Sulphur Company aveva l’agibilità commerciale nel Regno d’Italia. Sin dal maggio 1873, come direttore ed amministratore delegato delle miniere cesenati di proprietà della società inglese, era chiamato il giovane ing. Francesco Kossuth, figlio del patriota ungherese Lajos, di appena 32 anni. Negli anni dal 1874 al 1880, che avevavo rappresentato, in generale, per tutta l’industria zolfifera romagnola il periodo di massimo sviluppo, la produzione media annua della Boratella I° si aggirava sulle 10.000 tonnellate di zolfo grezzo e con un impiego di manodopera sulle 1200 unità. Il trasporto del materiale dalla miniera alla strada provinciale Borello-Mercato Saraceno avveniva, per la maggior parte, tramite la “ippoferrovia” (ferrovia a cavalli), costruita da Natale Dellamore, affittuario della miniera Boratella III, in quanto la strada comunale, che conduceva a Monteiottone, durante i lavori di posa dei binari era stata quasi distrutta, impedendone di fatto l’usabilità, specialmente nel periodo invernale. Il carteggio in Tribunale, presso l’Archivio di Stato di Forlì, per le continue liti fra il Dellamore, particolarmente esoso nei pedaggi e la Società inglese é oltremodo voluminoso. Gli anni che vanno dal 1880 al 1887 furono viceversa anni di crisi profonda per l’industria romagnola dello zolfo, che veniva messa in ginocchio dalla sensibile diminuzione del prezzo per tonnellata (circa il 45%) e dalla concorrenza degli zolfi siciliani, che avevano costi di produzione più bassi e vantaggi nel trasporto del minerale. La Cesena Sulphur Company per tentare di arginare il calo del prezzo dello zolfo per tonnellata, bloccava la vendita del suo prodotto, facendo ricorso, per far fronte alle spese correnti, ad ulteriori prestiti con la banca torinese U. Geisser; l’esposizione del passivo cambiario, nell’esercizio 1879, passerà da £. 150.000 a £. 953.950 e con conseguente pagamento di forti tassi d’interesse. Questa situazione non poteva che sfociare nel fallimento della Cesena Sulphur Company, avvenuto il 27/5/1887, allorché l’ing. Kossuth portava i libri contabili al Tribunale di Forlì. La miniera rimaneva attiva, grazie soprattutto alle iniziative del Curatore fallimentare, avvocato Pietro Turchi di Cesena, nominato il 17/6/1887 e che era stato autorizzato dal Tribunale di Forlì a proseguire l’esercizio provvisorio per cercare di pagare i crediti privilegiati (salari agli operai, imposte etc.) ed in parte i crediti chirografari e tentare di portare gli stabilimenti industriali in “assetto di esercizio” per cercare di trovare qualche acquirente, senza arrivare alla liquidazione dell’impresa, che non avrebbe prodotto nessun beneficio. Il lavoro e l’organizzazione in miniera cambiavano notevolmente per cercare di ridurre al minimo le spese di esercizio. L’ing. Kossuth, che risultava creditore per onorari arretrati della società fallita per la notevole somma di £. 7.839, vi rinunciava a favore degli operai; inoltre durante l’esercizio provvisorio era di grande aiuto al Curatore Fallimentare, che così si esprimeva: “… il comm. Kossuth si presterà gratuitamente a coadiuarmi colla sua esperienza e con il suo consiglio nell’impianto della nuova gestione”. L’avv. P. Turchi, esponente illuminato del repubblicanesimo romagnolo, profuse in questo nuovo incarico tutte le sue forze per vedere di: “ottenere quella soluzione, la quale possa riuscire di maggiore vantaggio a tutti gli interessati e valga a scongiurare la immensa iattura, che al nostro paese cagionerebbe la cessazione dell’industria delle Miniere Zulfuree”. Nel 1889 la concessione veniva presa prima dalla ditta Luigi Trezza e poi dalla Società anonima Miniere Solfuree Trezza-Albani di Romagna. Nel 1903 la miniera era definitivamente abbandonata, solo nel 1917 la società Montecatini raggruppava la Boratella I con altre concessioni limitrofe; i lavori di ricerca e di sfruttamento erano alquanto limitati.
la Boratella
Miniera Boratella 1 COMPRENSORIO CESENATE DAL 1861 AL 1962 Il GRUPPO MINIERE DI BORATELLA comprende le tre miniere di “Boratella I”, “Boratella II” e”Boratella III” situate sulla sponda del rio Boratella ed all’altezza della strada comunale per Le Ville di Monteiottone. Queste dunque, pur facenti parte dello stesso giacimento, erano autonome sotto il profilo tecnico e amministrativo. BORATELLA I in Comune di Mercato Saraceno Posta sulla sinistra del torrente Boratella ed alle falde del colle, che si innalza fra il torrente stesso ed il torrente Borello, interessa le parrocchie di Falcino, Piavola, Ciola e Monteiottone. La potenza dello strato coltivato era elevata, aggirandosi sui 4/5 m., certamente il giacimento più ricco scoperto in Romagna. Nel 1862 la concessione era in mano alla società di N. Dellamore, che la gestirà, passando da una fase iniziale di ricerca ad una di sviluppo con produzione intensa sino al 12/8/1869 quando, con rogito del notaio Trovanelli di Mercato Saraceno, sarà ceduta, in parti uguali, al conte Taveggi di Bologna ed all’ing. belga Giovanni de Rechter. In data 8/10/1871, con rogito notaio Cassinis di Torino, i nuovi proprietari vendevano la miniera a due banchieri: uno londinese Giovanni Stanisforth e l’altro parigino Martin Wolfang Scheyer. Con atto d’associazione veniva fondata, il 28/10/1871, la “Cesena Sulphur Company Limited”, con un capitale di 350.000 lire sterline (circa 8.750.000 di lire italiane), diviso in 35.000 azioni da 10 sterline l’una e con lo scopo d’acquistare dai due banchieri diverse miniere nel Cesenate. La compravendita veniva regolarizzata, il 28/4/1872, tramite la Banca Geisser di Torino, mandataria della società londinese, e subito dopo, il 18/7/1872, con regio decreto la Cesena Sulphur Company aveva l’agibilità commerciale nel Regno d’Italia. Sin dal maggio 1873, come direttore ed amministratore delegato delle miniere cesenati di proprietà della società inglese, era chiamato il giovane ing. Francesco Kossuth, figlio del patriota ungherese Lajos, di appena 32 anni. Negli anni dal 1874 al 1880, che avevavo rappresentato, in generale, per tutta l’industria zolfifera romagnola il periodo di massimo sviluppo, la produzione media annua della Boratella I° si aggirava sulle 10.000 tonnellate di zolfo grezzo e con un impiego di manodopera sulle 1200 unità. Il trasporto del materiale dalla miniera alla strada provinciale Borello-Mercato Saraceno avveniva, per la maggior parte, tramite la “ippoferrovia” (ferrovia a cavalli), costruita da Natale Dellamore, affittuario della miniera Boratella III, in quanto la strada comunale, che conduceva a Monteiottone, durante i lavori di posa dei binari era stata quasi distrutta, impedendone di fatto l’usabilità, specialmente nel periodo invernale. Il carteggio in Tribunale, presso l’Archivio di Stato di Forlì, per le continue liti fra il Dellamore, particolarmente esoso nei pedaggi e la Società inglese é oltremodo voluminoso. Gli anni che vanno dal 1880 al 1887 furono viceversa anni di crisi profonda per l’industria romagnola dello zolfo, che veniva messa in ginocchio dalla sensibile diminuzione del prezzo per tonnellata (circa il 45%) e dalla concorrenza degli zolfi siciliani, che avevano costi di produzione più bassi e vantaggi nel trasporto del minerale. La Cesena Sulphur Company per tentare di arginare il calo del prezzo dello zolfo per tonnellata, bloccava la vendita del suo prodotto, facendo ricorso, per far fronte alle spese correnti, ad ulteriori prestiti con la banca torinese U. Geisser; l’esposizione del passivo cambiario, nell’esercizio 1879, passerà da £. 150.000 a £. 953.950 e con conseguente pagamento di forti tassi d’interesse. Questa situazione non poteva che sfociare nel fallimento della Cesena Sulphur Company, avvenuto il 27/5/1887, allorché l’ing. Kossuth portava i libri contabili al Tribunale di Forlì. La miniera rimaneva attiva, grazie soprattutto alle iniziative del Curatore fallimentare, avvocato Pietro Turchi di Cesena, nominato il 17/6/1887 e che era stato autorizzato dal Tribunale di Forlì a proseguire l’esercizio provvisorio per cercare di pagare i crediti privilegiati (salari agli operai, imposte etc.) ed in parte i crediti chirografari e tentare di portare gli stabilimenti industriali in “assetto di esercizio” per cercare di trovare qualche acquirente, senza arrivare alla liquidazione dell’impresa, che non avrebbe prodotto nessun beneficio. Il lavoro e l’organizzazione in miniera cambiavano notevolmente per cercare di ridurre al minimo le spese di esercizio. L’ing. Kossuth, che risultava creditore per onorari arretrati della società fallita per la notevole somma di £. 7.839, vi rinunciava a favore degli operai; inoltre durante l’esercizio provvisorio era di grande aiuto al Curatore Fallimentare, che così si esprimeva: “… il comm. Kossuth si presterà gratuitamente a coadiuarmi colla sua esperienza e con il suo consiglio nell’impianto della nuova gestione”. L’avv. P. Turchi, esponente illuminato del repubblicanesimo romagnolo, profuse in questo nuovo incarico tutte le sue forze per vedere di: “ottenere quella soluzione, la quale possa riuscire di maggiore vantaggio a tutti gli interessati e valga a scongiurare la immensa iattura, che al nostro paese cagionerebbe la cessazione dell’industria delle Miniere Zulfuree”. Nel 1889 la concessione veniva presa prima dalla ditta Luigi Trezza e poi dalla Società anonima Miniere Solfuree Trezza-Albani di Romagna. Nel 1903 la miniera era definitivamente abbandonata, solo nel 1917 la società Montecatini raggruppava la Boratella I con altre concessioni limitrofe; i lavori di ricerca e di sfruttamento erano alquanto limitati.
Miniera di Boratella 2 in Comune di Cesena Posta nelle vicinanze della miniera Boratella I, sempre sulla sinistra del rio Boratella, si spingeva con gallerie sotto il monte Falcino fin verso il torrente Borello. La concessione era, nel 1863, in mano a Giovanni Petrucci e fratelli che la davano in affitto al Sig. Antonio Barbieri di Brescia. Per fasi successive, nel 1875, la proprietà passava alla società francese-belga “Generale des Soufres”. In questa miniera, il 12/8/1879, veniva assassinato da Brunetti Rinaldo, detto “Schinon”, il capo-sorvegliante Guizzetti Pasino, proveniente da Solto Collina nel circondario di Clusone (BG). Anche la Boratella II seguirà le traversie economiche della miniera inglese sino a confluire anch’essa nella Società anonima Miniere Solfuree Trezza-Albani di Romagna per poi passare, nel 1917, alla Società Montecatini. La produzione di zolfo grezzo raggiungeva punte massime di 3.000 tonn. anno e con un impiego di circa 200 operai.
Boratella
Miniera di Boratella 2 in Comune di Cesena Posta nelle vicinanze della miniera Boratella I, sempre sulla sinistra del rio Boratella, si spingeva con gallerie sotto il monte Falcino fin verso il torrente Borello. La concessione era, nel 1863, in mano a Giovanni Petrucci e fratelli che la davano in affitto al Sig. Antonio Barbieri di Brescia. Per fasi successive, nel 1875, la proprietà passava alla società francese-belga “Generale des Soufres”. In questa miniera, il 12/8/1879, veniva assassinato da Brunetti Rinaldo, detto “Schinon”, il capo-sorvegliante Guizzetti Pasino, proveniente da Solto Collina nel circondario di Clusone (BG). Anche la Boratella II seguirà le traversie economiche della miniera inglese sino a confluire anch’essa nella Società anonima Miniere Solfuree Trezza-Albani di Romagna per poi passare, nel 1917, alla Società Montecatini. La produzione di zolfo grezzo raggiungeva punte massime di 3.000 tonn. anno e con un impiego di circa 200 operai.
Miniera di Boratella 3 in Comune di Mercato Saraceno e Sogliano Questa miniera si trovava sulla destra del torrente Boratella con gallerie che si spingevano verso Monte Giusto e Cella. Assieme alla Boratella I era la più ragguardevole sia per l’entità della produzione sia per l’interesse che il giacimento aveva suscitato per potenza, ricchezza e per la facilità di estrazione. I primi concessionari erano stati i fratelli Giovanni, Paolo e Romualdo Grazi di Mercato Saraceno, Luigi Petrucci, l’ing. Livio Ricci di Forlì, Giovanni Battista Balducci e Gaetano Petrucci di Sarsina che stipulavano un atto di associazione in data 7/8/1868. Dal 1/7/1871 veniva data in affitto a Natale Dellamore per un canone stabilito in lire 2,50 per ogni quintale di zolfo prodotto e per una durata di otto anni e mezzo. Il Dellamore, sin dall’inizio dell’avventura nella Boratella, aveva intuito l’importanza delle strade ferrate, che nei primi anni post-unitari avevano attratto e sedotto tanti imprenditori, anche cesenati. Le vicende economiche dell’imprenditore cesenate erano sempre alquanto difficili, dovette ricorrere ad ingenti prestiti con le banche, in particolare, nell’aprile del 1873, con la Banca di Torino, con la Casa Ulrico Geisser di Torino per 500.00 lire e nel giugno successivo con la Casa Commerciale Yarak e Almagiˆ di Ancona per altre 500.000 lire. Alla fine del 1873, l’Intendente delle Finanze di Cesena non riusciva a riscuotere un’imposta di ricchezza mobile di £. 11.386, dovuta dal Dellamore, per cui avevano inizio le pratiche per la dichiarazione di fallimento presso il Tribunale di Forlì. Veniva costituita una Commissione Amministratrice dello stato Dellamore per la gestione delle sue miniere. Queste alterne vicissitudini economiche influivano in modo determinante anche sulla conduzione dei lavori minerari, che venivano, molte volte, lasciati al caso ed a scapito della sicurezza. Nella Boratella III si ebbe la più alta percentuale di incidenti mortali sul lavoro, crolli di gallerie e vari incendi anche dolosi. Nel maggio del 1875, con la rovina della galleria principale, seguita da una forte scossa, simile a quella di un terremoto, per oltre 400 metri si apriva un profondo crepaccio dal letto del rio Boratella sino al pozzo di estrazione pregiudicando per mesi la lavorazione. Circa 600 operai venivano a trovarsi senza occupazione, diversi si impiegavano nella miniera di Perticara nel Montefeltro. Nel febbraio 1881 veniva perfezionato un contratto d’affitto fra l’ing. Francesco Kossuth, per conto della Cesena Sulphur Company, e la maggioranza dei proprietari della miniera, presso il notaio Federico Maglioni di Sarsina, per la durata di nove anni ed a far data dal 1 marzo successivo. Nel 1883 un furioso incendio obbligava all’abbandono di larghi tratti del giacimento. Iniziavano le ricerche nei terreni in parrocchia di Cella e più precisamente in località Monte Giusto senza incontrare strati molto fertili. Nel settembre 1884 i minatori della Boratella, con particolare evidenza quelli della Boratella III, aprivano una dura vertenza nei confronti delle amministrazioni delle tre miniere, che volevano diminuire la loro paga giornaliera prendendo a confronto quella percepita dagli operai addetti alla sistemazione della strada Borello-Bacciolino, inferiore di oltre il 50%. A tal proposito il manifesto degli operai della Boratella e pubblicato, il 28/9/1884 é significativo del continuo stato di tensione esistente fra i lavoratori ed i datori di lavoro. L’8/5/1885 la Commissione amministrativa dello Stato Dellamore provvedeva a licenziare 59 minatori e 14 carreggiatori, che rispondevano esponendo le loro ragioni con un manifesto. All’inizio del 1887 la crisi della Boratella III era al culmine, Girolamo Gusella, agitatore delle maestranze della Boratella per conto di Natale Dellamore, che lo aveva assunto come impiegato addetto alla ippoferrovia, lanciava l’idea di costituire una “Associazione cooperativa dei Zolfatari di Romagna” con l’appoggio di Alessandro Fortis, ministro dell’agricoltura. La gestione della miniera veniva assunta dal Gusella, che convinceva questi minatori “anarchici” a sacrificarsi per la loro miniera ed a farsi pagare con “boni”, cioé lettere di credito rilasciate dall’Amministrazione e che potevano paragonarsi ad una specie di cambiale, purttoppo non sempre spendibile presso i vari bettolini. Si ricorreva a tale espediente in quanto era difficile trovare un banchiere disposto a far da cassa ad una simile associazione. Arrivavano, su interessamento del Gusella, sempre pronto a scrivere a tutti sulla “disperazione” della Boratella, piccoli aiuti alle povere famiglie dei minatori licenziati. Nel settembre 1887, a Borello, Gusella promuoveva la collocazione ed inaugurazione delle quattro lapidi inneggianti a Mazzini, Garibaldi, Campanella e Quadrio, erano presenti, in una festa di bandiere e di popolo, Valzania, l’avv. Pietro Turchi, il deputato forlivese Carlo Aventi. Anche il volenteroso Gusella, purtroppo, non riusciva a rimediare alla crisi ormai irreversibile in cui si trovavono le miniere romagnole, e amareggiato anche dal comportamento irresponsabile di molti minatori, nel febbraio del 1889, denunciava con un manifesto e rivolto agli operai tale stato di cose. Lo spirito indomito del mazziniano Gusella, sempre vicino a chi soffre, riusciva a trovare per 200 lavoranti della Boratella III un lavoro nelle bonifiche di Polesella, in provincia di Rovigo, il manifesto del 14/3/1889 (vedi G. Gusella) é un piccolo tassello per comprendere l’eclettico personaggio. Nel 1899, veniva dato il via ad un’esplorazione nella località Arsellino, consistente in una discenderia di m. 250 sul versante Savio, destinata a cercare un consistente strato zolfifero, ma nel 1903 i lavori venivano nuovamente sospesi. Nel 1918 una parte della concessione dal Sindacato Miniere Solfuree di Romagna passava alla Montecatini e nel 1924 la restante andava alla Società Zolfi, che ne otteneva la totale disponibilità, dietro adeguato compenso. Il 23/2/1919 veniva firmato fra il Sig.Bertozzi Balilla, rappresentante del Sindacato Miniere Solfure di Romagna ed il sig.Armando Bartolini della Camera del Lavoro di Cesena l’accordo che prevedeva nuove tariffe orarie (£. 1,10/h. per minatori di età non superiore ai 65 anni e £.1,05 per quelli con oltre 65 anni) e la riduzione dell’orario a otto ore giornaliere. La “Zolfi” proseguiva attivamente con l’esplorazione delle due discenderie, la “Fondoni” e la “Monte Giusto”, riuscendo ad ottenere una produzione di 4/5.000 tonnellate annue di zolfo grezzo. Nel 1934 avveniva la sospensione dei lavori dopo che il direttore della Zolfi, Ferdinando Macchetto ed il suo vice geom. Secondo Mario Forlivesi, perdevano la vita durante un’ispezione nelle gallerie. È particolarmente interessante il racconto del minatore Baraghini Augusto, accorso fra i primi sul luogo dell’incidente, testimonia con lucidità l’evento drammatico. La concessione infine ritornava alla Montecatini, che nel dopoguerra tentava un nuovo sondaggio a Monte Giusto, ma a causa del contingentamento della produzione e della profonda crisi, nel 1955 veniva tutto abbandonato.
Azienda Faunistico Venatoria La Boratella
37 Via Castello Bora
Miniera di Boratella 3 in Comune di Mercato Saraceno e Sogliano Questa miniera si trovava sulla destra del torrente Boratella con gallerie che si spingevano verso Monte Giusto e Cella. Assieme alla Boratella I era la più ragguardevole sia per l’entità della produzione sia per l’interesse che il giacimento aveva suscitato per potenza, ricchezza e per la facilità di estrazione. I primi concessionari erano stati i fratelli Giovanni, Paolo e Romualdo Grazi di Mercato Saraceno, Luigi Petrucci, l’ing. Livio Ricci di Forlì, Giovanni Battista Balducci e Gaetano Petrucci di Sarsina che stipulavano un atto di associazione in data 7/8/1868. Dal 1/7/1871 veniva data in affitto a Natale Dellamore per un canone stabilito in lire 2,50 per ogni quintale di zolfo prodotto e per una durata di otto anni e mezzo. Il Dellamore, sin dall’inizio dell’avventura nella Boratella, aveva intuito l’importanza delle strade ferrate, che nei primi anni post-unitari avevano attratto e sedotto tanti imprenditori, anche cesenati. Le vicende economiche dell’imprenditore cesenate erano sempre alquanto difficili, dovette ricorrere ad ingenti prestiti con le banche, in particolare, nell’aprile del 1873, con la Banca di Torino, con la Casa Ulrico Geisser di Torino per 500.00 lire e nel giugno successivo con la Casa Commerciale Yarak e Almagiˆ di Ancona per altre 500.000 lire. Alla fine del 1873, l’Intendente delle Finanze di Cesena non riusciva a riscuotere un’imposta di ricchezza mobile di £. 11.386, dovuta dal Dellamore, per cui avevano inizio le pratiche per la dichiarazione di fallimento presso il Tribunale di Forlì. Veniva costituita una Commissione Amministratrice dello stato Dellamore per la gestione delle sue miniere. Queste alterne vicissitudini economiche influivano in modo determinante anche sulla conduzione dei lavori minerari, che venivano, molte volte, lasciati al caso ed a scapito della sicurezza. Nella Boratella III si ebbe la più alta percentuale di incidenti mortali sul lavoro, crolli di gallerie e vari incendi anche dolosi. Nel maggio del 1875, con la rovina della galleria principale, seguita da una forte scossa, simile a quella di un terremoto, per oltre 400 metri si apriva un profondo crepaccio dal letto del rio Boratella sino al pozzo di estrazione pregiudicando per mesi la lavorazione. Circa 600 operai venivano a trovarsi senza occupazione, diversi si impiegavano nella miniera di Perticara nel Montefeltro. Nel febbraio 1881 veniva perfezionato un contratto d’affitto fra l’ing. Francesco Kossuth, per conto della Cesena Sulphur Company, e la maggioranza dei proprietari della miniera, presso il notaio Federico Maglioni di Sarsina, per la durata di nove anni ed a far data dal 1 marzo successivo. Nel 1883 un furioso incendio obbligava all’abbandono di larghi tratti del giacimento. Iniziavano le ricerche nei terreni in parrocchia di Cella e più precisamente in località Monte Giusto senza incontrare strati molto fertili. Nel settembre 1884 i minatori della Boratella, con particolare evidenza quelli della Boratella III, aprivano una dura vertenza nei confronti delle amministrazioni delle tre miniere, che volevano diminuire la loro paga giornaliera prendendo a confronto quella percepita dagli operai addetti alla sistemazione della strada Borello-Bacciolino, inferiore di oltre il 50%. A tal proposito il manifesto degli operai della Boratella e pubblicato, il 28/9/1884 é significativo del continuo stato di tensione esistente fra i lavoratori ed i datori di lavoro. L’8/5/1885 la Commissione amministrativa dello Stato Dellamore provvedeva a licenziare 59 minatori e 14 carreggiatori, che rispondevano esponendo le loro ragioni con un manifesto. All’inizio del 1887 la crisi della Boratella III era al culmine, Girolamo Gusella, agitatore delle maestranze della Boratella per conto di Natale Dellamore, che lo aveva assunto come impiegato addetto alla ippoferrovia, lanciava l’idea di costituire una “Associazione cooperativa dei Zolfatari di Romagna” con l’appoggio di Alessandro Fortis, ministro dell’agricoltura. La gestione della miniera veniva assunta dal Gusella, che convinceva questi minatori “anarchici” a sacrificarsi per la loro miniera ed a farsi pagare con “boni”, cioé lettere di credito rilasciate dall’Amministrazione e che potevano paragonarsi ad una specie di cambiale, purttoppo non sempre spendibile presso i vari bettolini. Si ricorreva a tale espediente in quanto era difficile trovare un banchiere disposto a far da cassa ad una simile associazione. Arrivavano, su interessamento del Gusella, sempre pronto a scrivere a tutti sulla “disperazione” della Boratella, piccoli aiuti alle povere famiglie dei minatori licenziati. Nel settembre 1887, a Borello, Gusella promuoveva la collocazione ed inaugurazione delle quattro lapidi inneggianti a Mazzini, Garibaldi, Campanella e Quadrio, erano presenti, in una festa di bandiere e di popolo, Valzania, l’avv. Pietro Turchi, il deputato forlivese Carlo Aventi. Anche il volenteroso Gusella, purtroppo, non riusciva a rimediare alla crisi ormai irreversibile in cui si trovavono le miniere romagnole, e amareggiato anche dal comportamento irresponsabile di molti minatori, nel febbraio del 1889, denunciava con un manifesto e rivolto agli operai tale stato di cose. Lo spirito indomito del mazziniano Gusella, sempre vicino a chi soffre, riusciva a trovare per 200 lavoranti della Boratella III un lavoro nelle bonifiche di Polesella, in provincia di Rovigo, il manifesto del 14/3/1889 (vedi G. Gusella) é un piccolo tassello per comprendere l’eclettico personaggio. Nel 1899, veniva dato il via ad un’esplorazione nella località Arsellino, consistente in una discenderia di m. 250 sul versante Savio, destinata a cercare un consistente strato zolfifero, ma nel 1903 i lavori venivano nuovamente sospesi. Nel 1918 una parte della concessione dal Sindacato Miniere Solfuree di Romagna passava alla Montecatini e nel 1924 la restante andava alla Società Zolfi, che ne otteneva la totale disponibilità, dietro adeguato compenso. Il 23/2/1919 veniva firmato fra il Sig.Bertozzi Balilla, rappresentante del Sindacato Miniere Solfure di Romagna ed il sig.Armando Bartolini della Camera del Lavoro di Cesena l’accordo che prevedeva nuove tariffe orarie (£. 1,10/h. per minatori di età non superiore ai 65 anni e £.1,05 per quelli con oltre 65 anni) e la riduzione dell’orario a otto ore giornaliere. La “Zolfi” proseguiva attivamente con l’esplorazione delle due discenderie, la “Fondoni” e la “Monte Giusto”, riuscendo ad ottenere una produzione di 4/5.000 tonnellate annue di zolfo grezzo. Nel 1934 avveniva la sospensione dei lavori dopo che il direttore della Zolfi, Ferdinando Macchetto ed il suo vice geom. Secondo Mario Forlivesi, perdevano la vita durante un’ispezione nelle gallerie. È particolarmente interessante il racconto del minatore Baraghini Augusto, accorso fra i primi sul luogo dell’incidente, testimonia con lucidità l’evento drammatico. La concessione infine ritornava alla Montecatini, che nel dopoguerra tentava un nuovo sondaggio a Monte Giusto, ma a causa del contingentamento della produzione e della profonda crisi, nel 1955 veniva tutto abbandonato.
Miniera di Piavola in Comune di Mercato Saraceno I primi lavori d’esplorazione iniziavano nel 1870 da parte di Giovanni Petrucci, titolare della concessione della Boratella II, e dell’ing. belga Giovanni De Rechter con la perforazione di un pozzo, posto a 600 m. dal confine della concessione della Boratella I, ma diedero risultati negativi. Dal 1874 al 1879, l’ing. belga, rimasto da solo e con un coraggio non comune, continuava ad aprire nuovi pozzi, in località “Ramiera”, a pochi metri dalla sponda del torrente Borello, ma senza successo. Nel 1892 la concessione, dopo il susseguirsi di vari titolari, era pervenuta alla ditta Luigi Trezza, che in località “Ca’ del Guscio”, sempre vicino al torrente Borello, aveva scavato un nuovo pozzo raggiungendo una profondità di 204 m. ed uno strato solfifero di mt. 0,70, abbastanza povero per gli ingenti investimenti fatti. Nel 1897 sempre la ditta Luigi Trezza affondava un nuovo pozzo denominato “pozzo 5 o Piavola” molto vicino alla concessione della Boratella I, veniva raggiunta, nel 1900, la profondità di m. 363 ed incontrando uno strato zolfifero della potenza di mt. 1,80 seguito subito dopo da consistenti strati di “cagnino” per cui non s’iniziava la coltivazione vera e propria. Un’altra causa di sospensione dei lavori era la mancanza di una strada praticabile nella vallata del torrente Borello: in caso di piena del corso d’acqua non vi erano collegamenti validi in quanto il tratturo esistente correva in parte nel letto del torrente. Solo nel 1906 veniva portato avanti, per iniziativa di un comitato guidato da Giuseppe Gualtieri di Borello, il progetto della strada “Borello -Spinello”, che sarà realizzata molti anni dopo. Nel 1926, dopo che la concessione era pervenuta alla Società Montecatini, vi fu un tentativo di ripresa per rintracciare antiche coltivazioni della Boratella I e Boratella II riattivando il vecchio “pozzo “5”. Anche questo tentativo falliva e nel 1934, in conseguenza della crisi dell’industria zolfifera, i lavori venivano abbandonati. Nel 1950 la Direzione della miniera di Formignano faceva recuperare diverso materiale.
Piavola
Miniera di Piavola in Comune di Mercato Saraceno I primi lavori d’esplorazione iniziavano nel 1870 da parte di Giovanni Petrucci, titolare della concessione della Boratella II, e dell’ing. belga Giovanni De Rechter con la perforazione di un pozzo, posto a 600 m. dal confine della concessione della Boratella I, ma diedero risultati negativi. Dal 1874 al 1879, l’ing. belga, rimasto da solo e con un coraggio non comune, continuava ad aprire nuovi pozzi, in località “Ramiera”, a pochi metri dalla sponda del torrente Borello, ma senza successo. Nel 1892 la concessione, dopo il susseguirsi di vari titolari, era pervenuta alla ditta Luigi Trezza, che in località “Ca’ del Guscio”, sempre vicino al torrente Borello, aveva scavato un nuovo pozzo raggiungendo una profondità di 204 m. ed uno strato solfifero di mt. 0,70, abbastanza povero per gli ingenti investimenti fatti. Nel 1897 sempre la ditta Luigi Trezza affondava un nuovo pozzo denominato “pozzo 5 o Piavola” molto vicino alla concessione della Boratella I, veniva raggiunta, nel 1900, la profondità di m. 363 ed incontrando uno strato zolfifero della potenza di mt. 1,80 seguito subito dopo da consistenti strati di “cagnino” per cui non s’iniziava la coltivazione vera e propria. Un’altra causa di sospensione dei lavori era la mancanza di una strada praticabile nella vallata del torrente Borello: in caso di piena del corso d’acqua non vi erano collegamenti validi in quanto il tratturo esistente correva in parte nel letto del torrente. Solo nel 1906 veniva portato avanti, per iniziativa di un comitato guidato da Giuseppe Gualtieri di Borello, il progetto della strada “Borello -Spinello”, che sarà realizzata molti anni dopo. Nel 1926, dopo che la concessione era pervenuta alla Società Montecatini, vi fu un tentativo di ripresa per rintracciare antiche coltivazioni della Boratella I e Boratella II riattivando il vecchio “pozzo “5”. Anche questo tentativo falliva e nel 1934, in conseguenza della crisi dell’industria zolfifera, i lavori venivano abbandonati. Nel 1950 la Direzione della miniera di Formignano faceva recuperare diverso materiale.
Miniera di Ca’ di Guido in Comune di Mercato Saraceno e Sogliano La miniera, ubicata sulla sponda destra del fiume Savio ed immediatamente a sud del torrente Ausa, veniva data in concessione a Natale Dellamore, che fra l’altro gestiva nelle vicinanze un molino per la macinazione del grano, sfruttando, con una piccola chiusa a monte, le acque del fiume Savio. La miniera seguiva lo svilluparsi dei complessi passaggi di proprietà della gestione Dellamore, pervenendo alla Cesena Sulphur Company e di conseguenza anche le sorti, come già indicato per la miniera Boratella I. Il pozzo principale denominato “Cesare” era profondo 130 m., l’estrazione del minerale era disagevole e dispendiosa e pur essendo lo strato abbastanza consistente (m. 1/1,50) ben presto veniva abbandonato. Nel 1894 la concessione era accordata alla ditta Luigi Trezza e per passaggi successivi alla Soc.An. Miniere Solfuree Trezza-Romagna, alla Soc.An.Miniere Solfuree Trezza-Albani Romagna ed, infine, nel 1917 alla Società Montecatini che la rinunciava nel 1937. Nel 1952 la Soc. Industria Mineraria intraprendeva l’esecuzione di due sondaggi in località “Cà Casetto”, la perforazione raggiungeva la profondità di m. 157 e m. 203 rispettivamente senza pervenire a strati di gesso e zolfo.
via delle miniere
via delle miniere
Miniera di Ca’ di Guido in Comune di Mercato Saraceno e Sogliano La miniera, ubicata sulla sponda destra del fiume Savio ed immediatamente a sud del torrente Ausa, veniva data in concessione a Natale Dellamore, che fra l’altro gestiva nelle vicinanze un molino per la macinazione del grano, sfruttando, con una piccola chiusa a monte, le acque del fiume Savio. La miniera seguiva lo svilluparsi dei complessi passaggi di proprietà della gestione Dellamore, pervenendo alla Cesena Sulphur Company e di conseguenza anche le sorti, come già indicato per la miniera Boratella I. Il pozzo principale denominato “Cesare” era profondo 130 m., l’estrazione del minerale era disagevole e dispendiosa e pur essendo lo strato abbastanza consistente (m. 1/1,50) ben presto veniva abbandonato. Nel 1894 la concessione era accordata alla ditta Luigi Trezza e per passaggi successivi alla Soc.An. Miniere Solfuree Trezza-Romagna, alla Soc.An.Miniere Solfuree Trezza-Albani Romagna ed, infine, nel 1917 alla Società Montecatini che la rinunciava nel 1937. Nel 1952 la Soc. Industria Mineraria intraprendeva l’esecuzione di due sondaggi in località “Cà Casetto”, la perforazione raggiungeva la profondità di m. 157 e m. 203 rispettivamente senza pervenire a strati di gesso e zolfo.
Miniera di Piaia e Paderno in Comune di Mercato Saraceno La miniera era situata sulla riva destra del fiume Savio a circa km. 2,5 dall’abitato di Mercato Saraceno; dalla superstrada E-45 sono ancora visibili residui di rosticci, era certamente attiva nel 1675, quando il già ricordato Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730) la descriveva così: “Ciaia di là del Savio quasi a vista di Mercato Saraceno”. Il 1/4/1875 l’ing. belga Giovanni de Rechter l’aveva in concessione ed iniziava la coltivazione con una produzione abbastanza costante sino al 1888, anno di chiusura di quasi tutte le miniere del cesenate, che erano andate soggette a crisi per la concorrenza degli zolfi siciliani e conseguentemente a gravi dissesti finanziari. La concessione della miniera passava alla Banca di Torino, che si era esposta per ingenti somme con l’ing. Belga; nel 1890 Domenico Gualtieri la rilevava gestendola sino al 1917, quando subentrerà la Soc. An: Miniere di Romagna per poi passarla, nel 1918, alla Soc. Montecatini. Quest’ultima negli anni 1951-52 eseguiva ben cinque sondaggi con risultati negativi. All’Archivio di Stato di Forlì vi sono numerosi disegni e planimetrie redatti con cura dei terreni interessati all’esplorazione.
Via Piaia
Via Piaia
Miniera di Piaia e Paderno in Comune di Mercato Saraceno La miniera era situata sulla riva destra del fiume Savio a circa km. 2,5 dall’abitato di Mercato Saraceno; dalla superstrada E-45 sono ancora visibili residui di rosticci, era certamente attiva nel 1675, quando il già ricordato Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730) la descriveva così: “Ciaia di là del Savio quasi a vista di Mercato Saraceno”. Il 1/4/1875 l’ing. belga Giovanni de Rechter l’aveva in concessione ed iniziava la coltivazione con una produzione abbastanza costante sino al 1888, anno di chiusura di quasi tutte le miniere del cesenate, che erano andate soggette a crisi per la concorrenza degli zolfi siciliani e conseguentemente a gravi dissesti finanziari. La concessione della miniera passava alla Banca di Torino, che si era esposta per ingenti somme con l’ing. Belga; nel 1890 Domenico Gualtieri la rilevava gestendola sino al 1917, quando subentrerà la Soc. An: Miniere di Romagna per poi passarla, nel 1918, alla Soc. Montecatini. Quest’ultima negli anni 1951-52 eseguiva ben cinque sondaggi con risultati negativi. All’Archivio di Stato di Forlì vi sono numerosi disegni e planimetrie redatti con cura dei terreni interessati all’esplorazione.
Miniera di Campitello in Comune di Sogliano e Mercato Saraceno La miniera si trovava sulla falda del monte Spelano fra Rontagnano e Monte Petra, all’estremità del bacino zolfifero romagnolo nel punto che si congiungeva con quello del Montefeltro e più precisamente con la miniera di Perticara, interessando le parrocchie di Colonnata, Rontagnano e Monte Petra. Sin dal 1862 i lavori venivano intrapresi da diversi piccoli imprenditori con risultati discontinui, ma era Natale Dellamore, nel 1866, a presentare regolare domanda al Prefetto di Forlì per ottenere la concessione. Questa miniera, sebbene dal rapporto dell’ing. Emilio Niccoli del Corpo Reale delle miniere del distretto di Ancona, il 10/12/1872 risultasse abbandonata, veniva trasferita in proprietà alla Società Cesena Sulphur Company seguendone le vicende economiche. Nel 1903 venne richiesto da Ernesto Ferri un nuovo permesso di ricerca, che sarà poi trasferito al dott. Giovanni Gorio, che otterrà finalmente la concessione nel 1911, iniziando di fatto notevoli lavori . Nel 1918 proprietaria della miniera era la Società Bomprini-Parodi-Delfino, che fra l’altro costruiva anche una teleferica, che superava il fiume Savio, per il trasporto dello zolfo direttamente dai forni calcheroni allo stabilimento di raffineria sito all’inizio dell’abitato di Mercato Saraceno. Sino al 1933, anno di chiusura definitiva della miniera, la produzione globale raggiungeva le 20.000 t. e mediamente gli operai impiegati furono sulle 100 unità.
Monte Spelano
Via Facettino
Miniera di Campitello in Comune di Sogliano e Mercato Saraceno La miniera si trovava sulla falda del monte Spelano fra Rontagnano e Monte Petra, all’estremità del bacino zolfifero romagnolo nel punto che si congiungeva con quello del Montefeltro e più precisamente con la miniera di Perticara, interessando le parrocchie di Colonnata, Rontagnano e Monte Petra. Sin dal 1862 i lavori venivano intrapresi da diversi piccoli imprenditori con risultati discontinui, ma era Natale Dellamore, nel 1866, a presentare regolare domanda al Prefetto di Forlì per ottenere la concessione. Questa miniera, sebbene dal rapporto dell’ing. Emilio Niccoli del Corpo Reale delle miniere del distretto di Ancona, il 10/12/1872 risultasse abbandonata, veniva trasferita in proprietà alla Società Cesena Sulphur Company seguendone le vicende economiche. Nel 1903 venne richiesto da Ernesto Ferri un nuovo permesso di ricerca, che sarà poi trasferito al dott. Giovanni Gorio, che otterrà finalmente la concessione nel 1911, iniziando di fatto notevoli lavori . Nel 1918 proprietaria della miniera era la Società Bomprini-Parodi-Delfino, che fra l’altro costruiva anche una teleferica, che superava il fiume Savio, per il trasporto dello zolfo direttamente dai forni calcheroni allo stabilimento di raffineria sito all’inizio dell’abitato di Mercato Saraceno. Sino al 1933, anno di chiusura definitiva della miniera, la produzione globale raggiungeva le 20.000 t. e mediamente gli operai impiegati furono sulle 100 unità.
Perticara sorge lungo il crinale tra Marecchia e Savio, al passaggio tra gli affioramenti di arenarie plioceniche che formano il massiccio di Monte Aquilone, Monte Perticata e Monte Pincio e una successione di sedimenti in prevalenza argillosi, miocenici, che si sviluppa lungo la valle del torrente Fanante, in direzione del Savio. Anche se in prossimità di Perticara sono gli imponenti rilievi arenacei a dominare la scena paesaggistica, l'interesse geologico dell'area si focalizza nella successione di strati che forma i versanti a valle del paese. Gli affioramenti rocciosi lungo le valli di Fanante e Fanantello hanno una straordinaria valenza scientifica, mentre il sottosuolo custodisce le gallerie delle miniere di zolfo che per lungo tempo sono state attive in questi luoghi. Tra gli strati miocenici argillosi (Formazione dei Ghioli di tetto) infatti si trovano peculiari livelli di gesso risedimentato, ossia una roccia formata da frammenti di gesso dalle dimensioni svariate, la cui origine è legata all'erosione di preesistenti strati di gesso cristallino (selenitico), che, poco dopo essersi sedimentato, si trovava già esposto agli agenti erosivi. A questo tipo di gesso "clastico" sono associati gli importantissimi giacimenti di zolfo di Perticara, la cui origine non a tutt'oggi chiarita. È possibile che questo minerale si sia formato in seguito a complesse reazioni chimiche tra il gesso e le sostanze bituminose presenti nelle argille ad esso intercalate, oppure che la sua sintesi sia avvenuta in seguito all'azione di batteri che vivono, grazie a complesse reazioni biochimiche, "estraendo" dal solfato di calcio l'acido solfidrico (sono detti solfobatteri), con la successiva formazione di zolfo. Gli strati gessosi nella successione risultarono essere 13, tra questi alla base ne esiste uno particolarmente spesso (da 14 a 22 m) detto nel gergo minerario "strato maestro", che, contenendo una percentuale in zolfo del 38-40%, costituiva da solo l'importanza del giacimento, essendo gli altri strati solfiferi, detti "seghe", meno spessi e con un tenore inferiore di zolfo. Il distretto minerario di Perticara ha avuto una storia complessa, essendovi state attive le miniere dal XVII secolo. Tra le varie fasi estrattive le più importanti presero il via nel 1917, con il ritrovamento di un importante filone solfifero e terminarono nel 1964 con la definitiva chiusura dei siti estrattivi e delle attività correlate. I filoni solfiferi principali si estendevano in profondità per diverse centinaia di metri e le gallerie li inseguivano, spingendosi sino a -740 m. di profondità su 9 livelli di coltivazione, con uno sviluppo in pianta di oltre 100 km. L'estrazione dello zolfo avveniva per fusione (lo zolfo fonde a temperature di poco superiori a 100°) all'interno di calcheroni, forni circolari e interrati dove la roccia veniva riscaldata sino alla fusione dello zolfo, poi in strutture più efficienti, i forni Gill. Queste attività secolari hanno lasciato tracce diffuse; il paesaggio ha così acquisito un aspetto fortemente antropizzato, soprattutto nei luoghi in cui venivano alla luce le numerose gallerie. Lo sviluppo di queste miniere ha determinato uno sfruttamento intensivo delle zone di estrazione ed il rilascio dei materiali di scarto ("rosticcio", "bruciaticcio", ecc.); così nelle adiacenze delle zone minerarie si sono formati rilievi morfologici alti anche diverse decine di metri o coltri di copertura diffusa sui versanti. A breve distanza dal paese, all'interno dell'ex Cantiere Solfureo Certino si trova il Museo Storico e Minerario di Perticara Sulphur , che in una cornice di archeologia industriale custodisce le più importanti testimonianze dell'attività mineraria ed organizza numerose attività didattiche e divulgative. La zona è attraversata dall'ottava tappa del cammino di San Vicinio, un lungo e articolato percorso ad anello che valica montagne e colline attorno alla valle del Savio, raggiungendo la Verna e il Parco delle Foreste Casentinesi.
Miniera
Perticara sorge lungo il crinale tra Marecchia e Savio, al passaggio tra gli affioramenti di arenarie plioceniche che formano il massiccio di Monte Aquilone, Monte Perticata e Monte Pincio e una successione di sedimenti in prevalenza argillosi, miocenici, che si sviluppa lungo la valle del torrente Fanante, in direzione del Savio. Anche se in prossimità di Perticara sono gli imponenti rilievi arenacei a dominare la scena paesaggistica, l'interesse geologico dell'area si focalizza nella successione di strati che forma i versanti a valle del paese. Gli affioramenti rocciosi lungo le valli di Fanante e Fanantello hanno una straordinaria valenza scientifica, mentre il sottosuolo custodisce le gallerie delle miniere di zolfo che per lungo tempo sono state attive in questi luoghi. Tra gli strati miocenici argillosi (Formazione dei Ghioli di tetto) infatti si trovano peculiari livelli di gesso risedimentato, ossia una roccia formata da frammenti di gesso dalle dimensioni svariate, la cui origine è legata all'erosione di preesistenti strati di gesso cristallino (selenitico), che, poco dopo essersi sedimentato, si trovava già esposto agli agenti erosivi. A questo tipo di gesso "clastico" sono associati gli importantissimi giacimenti di zolfo di Perticara, la cui origine non a tutt'oggi chiarita. È possibile che questo minerale si sia formato in seguito a complesse reazioni chimiche tra il gesso e le sostanze bituminose presenti nelle argille ad esso intercalate, oppure che la sua sintesi sia avvenuta in seguito all'azione di batteri che vivono, grazie a complesse reazioni biochimiche, "estraendo" dal solfato di calcio l'acido solfidrico (sono detti solfobatteri), con la successiva formazione di zolfo. Gli strati gessosi nella successione risultarono essere 13, tra questi alla base ne esiste uno particolarmente spesso (da 14 a 22 m) detto nel gergo minerario "strato maestro", che, contenendo una percentuale in zolfo del 38-40%, costituiva da solo l'importanza del giacimento, essendo gli altri strati solfiferi, detti "seghe", meno spessi e con un tenore inferiore di zolfo. Il distretto minerario di Perticara ha avuto una storia complessa, essendovi state attive le miniere dal XVII secolo. Tra le varie fasi estrattive le più importanti presero il via nel 1917, con il ritrovamento di un importante filone solfifero e terminarono nel 1964 con la definitiva chiusura dei siti estrattivi e delle attività correlate. I filoni solfiferi principali si estendevano in profondità per diverse centinaia di metri e le gallerie li inseguivano, spingendosi sino a -740 m. di profondità su 9 livelli di coltivazione, con uno sviluppo in pianta di oltre 100 km. L'estrazione dello zolfo avveniva per fusione (lo zolfo fonde a temperature di poco superiori a 100°) all'interno di calcheroni, forni circolari e interrati dove la roccia veniva riscaldata sino alla fusione dello zolfo, poi in strutture più efficienti, i forni Gill. Queste attività secolari hanno lasciato tracce diffuse; il paesaggio ha così acquisito un aspetto fortemente antropizzato, soprattutto nei luoghi in cui venivano alla luce le numerose gallerie. Lo sviluppo di queste miniere ha determinato uno sfruttamento intensivo delle zone di estrazione ed il rilascio dei materiali di scarto ("rosticcio", "bruciaticcio", ecc.); così nelle adiacenze delle zone minerarie si sono formati rilievi morfologici alti anche diverse decine di metri o coltri di copertura diffusa sui versanti. A breve distanza dal paese, all'interno dell'ex Cantiere Solfureo Certino si trova il Museo Storico e Minerario di Perticara Sulphur , che in una cornice di archeologia industriale custodisce le più importanti testimonianze dell'attività mineraria ed organizza numerose attività didattiche e divulgative. La zona è attraversata dall'ottava tappa del cammino di San Vicinio, un lungo e articolato percorso ad anello che valica montagne e colline attorno alla valle del Savio, raggiungendo la Verna e il Parco delle Foreste Casentinesi.

Miniera di carbone

Sogliano al Rubicone MINIERA DI CARBONE Risale al 1780 la prima scoperta del carbone fossile di Sogliano al Rubicone con l’esplorazione in loco del celebre abate professore Giovanni Antonio Battarra di Rimini e del suo alunno il dottore Gaetano Marcosanti di Sogliano. Una vicenda molto importante per il territorio soglianese e non solo, perchè lasciava intravvedere una grande risorsa economica non solo per il territorio, ma anche per lo Stato Pontificio. La prima scoperta avvenne in località Ripa Rossa di Tampanale, a ponente del paese verso la sponda di levante del Rubicone. Qui furono rilevate quantità importanti di carbon fossile. Un’altra grande vena di questo minerale venne subito dopo scoperta nella zona della Cioca, ma la vena più importante di lignite era a ‘Ripa Rossa della Piana’, sita dopo l’abitato di Sogliano. Altre vene di carbon fossile furono scoperte a San Giovanni in Galilea. In seguito giacimenti furono scoperti a Montegelli e a Montetiffi. La miniera vera e propria cominciò a essere attiva quando il conte Fantuzzi di Gualdo di Longiano nel 1788 scrisse di questa scoperta e nel 1789 diede inzio ai lavori. La corposa ricerca è stata fatta da Elio Raboni di Savignano, appassionato studioso della storia della Valle del Rubicone e consigliere della Accademia dei Filopatridi di Savignano. Quando iniziò a operare fattivamente la miniera? L’avvio dei lavori non fu facile fra difficoltà tecniche, economiche e malevoli critiche che arrivavano dall’opinione pubblica che non credeva nella utilità della lignite, un carbone di terra povero e non facile da usare. Ma la miniera venne realizzata dal Fantuzzi con grande spesa e, per potere traferire la lignite nei vicini porti di Cesenatico e Rimini, costruì la strada da Sogliano a San Giovanni in Compito, l’attuale Fondovalle Rubicone, per potere arrivare sull’antica via Emilia. Nel 1790 si cominciò a estrarre, dando lavoro a tante famiglie del posto. Fino a quando fu operativa? Si estrasse fino al 1799 con alterne fortune. Venne abbandonata e quasi dimenticata, sotto il governo napoleonico, per poi ripartire nel 1812 fino al nuovo abbandono nel 1866. Fu quella la fine della miniera? No. Rimase inattiva 40 anni, fino all’inizio della Prima guerra mondiale. Nel 1916 l’enorme richiesta di materie prime per supportare il grande sforzo bellico della Nazione indusse a riaprire le miniere del Capannaccio, Carbone, Montegelli e Montetiffi. Certamente la lignite era importante, ma probabilmente dietro a questa riapertura ci fu anche l’interesse delle autorità locali e la richiesta delle famiglie di tenere così i soglianesi a casa e non mandarli in guerra, tanto allo Stato erano ugualmente utili. Nel 1924 la nuova chiusura e l’abbadono. Fu la fine delle miniere di lignite? No, neppure questa volta ci fu la chiusura defintiva. Nel 1938 Benito Mussolini andò in visita a Sogliano e, considerando che l’Italia era sotto sanzione di materie prime da parte di tutte le potenze d‘Europa, si interessò alle miniere soglianesi e le fece riaprire attraverso la società ‘Carboni di Romagna’ che iniziò i lavori al Capannaccio, scoprendo importanti nuovi giacimenti carboniferi. Finita la guerra le miniere chiusero definitivamente. Cosa resta oggi? Visivamente nulla. Sulle miniere di carbon fossile di Sogliano resta la memoria degli anziani e pubblicazioni fra le quali quella dello studioso soglianese Pierluigi Sacchini con allegata una copia originale anastatica della mappa delle miniere di Sogliano.
Miniera del Capannaccio
Sogliano al Rubicone MINIERA DI CARBONE Risale al 1780 la prima scoperta del carbone fossile di Sogliano al Rubicone con l’esplorazione in loco del celebre abate professore Giovanni Antonio Battarra di Rimini e del suo alunno il dottore Gaetano Marcosanti di Sogliano. Una vicenda molto importante per il territorio soglianese e non solo, perchè lasciava intravvedere una grande risorsa economica non solo per il territorio, ma anche per lo Stato Pontificio. La prima scoperta avvenne in località Ripa Rossa di Tampanale, a ponente del paese verso la sponda di levante del Rubicone. Qui furono rilevate quantità importanti di carbon fossile. Un’altra grande vena di questo minerale venne subito dopo scoperta nella zona della Cioca, ma la vena più importante di lignite era a ‘Ripa Rossa della Piana’, sita dopo l’abitato di Sogliano. Altre vene di carbon fossile furono scoperte a San Giovanni in Galilea. In seguito giacimenti furono scoperti a Montegelli e a Montetiffi. La miniera vera e propria cominciò a essere attiva quando il conte Fantuzzi di Gualdo di Longiano nel 1788 scrisse di questa scoperta e nel 1789 diede inzio ai lavori. La corposa ricerca è stata fatta da Elio Raboni di Savignano, appassionato studioso della storia della Valle del Rubicone e consigliere della Accademia dei Filopatridi di Savignano. Quando iniziò a operare fattivamente la miniera? L’avvio dei lavori non fu facile fra difficoltà tecniche, economiche e malevoli critiche che arrivavano dall’opinione pubblica che non credeva nella utilità della lignite, un carbone di terra povero e non facile da usare. Ma la miniera venne realizzata dal Fantuzzi con grande spesa e, per potere traferire la lignite nei vicini porti di Cesenatico e Rimini, costruì la strada da Sogliano a San Giovanni in Compito, l’attuale Fondovalle Rubicone, per potere arrivare sull’antica via Emilia. Nel 1790 si cominciò a estrarre, dando lavoro a tante famiglie del posto. Fino a quando fu operativa? Si estrasse fino al 1799 con alterne fortune. Venne abbandonata e quasi dimenticata, sotto il governo napoleonico, per poi ripartire nel 1812 fino al nuovo abbandono nel 1866. Fu quella la fine della miniera? No. Rimase inattiva 40 anni, fino all’inizio della Prima guerra mondiale. Nel 1916 l’enorme richiesta di materie prime per supportare il grande sforzo bellico della Nazione indusse a riaprire le miniere del Capannaccio, Carbone, Montegelli e Montetiffi. Certamente la lignite era importante, ma probabilmente dietro a questa riapertura ci fu anche l’interesse delle autorità locali e la richiesta delle famiglie di tenere così i soglianesi a casa e non mandarli in guerra, tanto allo Stato erano ugualmente utili. Nel 1924 la nuova chiusura e l’abbadono. Fu la fine delle miniere di lignite? No, neppure questa volta ci fu la chiusura defintiva. Nel 1938 Benito Mussolini andò in visita a Sogliano e, considerando che l’Italia era sotto sanzione di materie prime da parte di tutte le potenze d‘Europa, si interessò alle miniere soglianesi e le fece riaprire attraverso la società ‘Carboni di Romagna’ che iniziò i lavori al Capannaccio, scoprendo importanti nuovi giacimenti carboniferi. Finita la guerra le miniere chiusero definitivamente. Cosa resta oggi? Visivamente nulla. Sulle miniere di carbon fossile di Sogliano resta la memoria degli anziani e pubblicazioni fra le quali quella dello studioso soglianese Pierluigi Sacchini con allegata una copia originale anastatica della mappa delle miniere di Sogliano.

Grotte

Il complesso carsico di Onferno è considerato tra i più importanti d’Italia tra le grotte di gesso. Scavate dalle acque di un torrentello, che nel corso di millenni si è fatto strada attraverso la roccia, le grotte di Onferno si aprono alla base del grande e singolare masso gessoso su cui anticamente sorgeva il “Castrum Inferni”. La grotta ha uno sviluppo di circa 400 m. con un dislivello di 64 m. e una delle sue caratteristiche è rappresentata dalla presenza di cospicue colonie di pipistrelli (oltre 8000 esemplari). Lungo il percorso si incontrano stanze di diversa grandezza, alcune molto ampie, altre più piccole e ricche di creazioni. La parte più famosa della grotta è la Sala Quirina, detta anche Sala dei Mammelloni per le grosse protuberanze coniche di gesso che sporgono dal soffitto. Questi mammelloni, spettacolari per dimensioni e numero, sono tra i più grandi d’Europa. Il territorio della Riserva ha caratteristiche del tutto peculiari, e non solo grazie alla presenza delle Grotte carsiche di grande interesse scientifico, naturalistico e spettacolare, ma anche per la flora, tipica di altitudini superiori, che cresce a causa della presenza e dell’influsso delle Grotte che hanno una temperatura costante durante tutto l’anno di circa 12/13 gradi. All’interno dei 123 ettari della Riserva si sviluppano una serie di percorsi nella natura di diversa lunghezza e grado di difficoltà ma sempre della stessa bellezza, da fare a piedi o in mountain-bike. La sede della Riserva Naturale è nella antica Pieve di Santa Colomba, oggi restaurata e adibita a museo naturalistico che è un vero e proprio paradiso per i bimbi. Lo spazio espositivo è impostato con la logica del gioco e dell’interattività che stimolano la curiosità e l’attenzione dei bambini (e anche di che bimbo non è più). Un museo, quindi, multimediale provvisto di una tecnologia di prim’ordine ma discreta, dolce e tanto lontana dai video giochi. Uno spazio ideale per la famiglia. Per i più coraggiosi, il Parco offre anche escursioni estive notturne, quando gli inquilini delle grotte, i pipistrelli, sono in grande fermento e volano da una parte all’altra.
25 persone del luogo consigliano
Grotte di Onferno
25 persone del luogo consigliano
Il complesso carsico di Onferno è considerato tra i più importanti d’Italia tra le grotte di gesso. Scavate dalle acque di un torrentello, che nel corso di millenni si è fatto strada attraverso la roccia, le grotte di Onferno si aprono alla base del grande e singolare masso gessoso su cui anticamente sorgeva il “Castrum Inferni”. La grotta ha uno sviluppo di circa 400 m. con un dislivello di 64 m. e una delle sue caratteristiche è rappresentata dalla presenza di cospicue colonie di pipistrelli (oltre 8000 esemplari). Lungo il percorso si incontrano stanze di diversa grandezza, alcune molto ampie, altre più piccole e ricche di creazioni. La parte più famosa della grotta è la Sala Quirina, detta anche Sala dei Mammelloni per le grosse protuberanze coniche di gesso che sporgono dal soffitto. Questi mammelloni, spettacolari per dimensioni e numero, sono tra i più grandi d’Europa. Il territorio della Riserva ha caratteristiche del tutto peculiari, e non solo grazie alla presenza delle Grotte carsiche di grande interesse scientifico, naturalistico e spettacolare, ma anche per la flora, tipica di altitudini superiori, che cresce a causa della presenza e dell’influsso delle Grotte che hanno una temperatura costante durante tutto l’anno di circa 12/13 gradi. All’interno dei 123 ettari della Riserva si sviluppano una serie di percorsi nella natura di diversa lunghezza e grado di difficoltà ma sempre della stessa bellezza, da fare a piedi o in mountain-bike. La sede della Riserva Naturale è nella antica Pieve di Santa Colomba, oggi restaurata e adibita a museo naturalistico che è un vero e proprio paradiso per i bimbi. Lo spazio espositivo è impostato con la logica del gioco e dell’interattività che stimolano la curiosità e l’attenzione dei bambini (e anche di che bimbo non è più). Un museo, quindi, multimediale provvisto di una tecnologia di prim’ordine ma discreta, dolce e tanto lontana dai video giochi. Uno spazio ideale per la famiglia. Per i più coraggiosi, il Parco offre anche escursioni estive notturne, quando gli inquilini delle grotte, i pipistrelli, sono in grande fermento e volano da una parte all’altra.
Tanaccia di Brisighella, una tra le più belle e conosciute grotte dell’intera Vena del Gesso romagnola, presenta un percorso ipogeo con ambienti suggestivi arricchiti da interessanti fenomeni carsici; è possibile visitarla tutto l’anno, con esclusione del periodo invernale per tutelare il letargo dei pipistrelli. Il complesso carsico della Tanaccia, posto a circa 200 m. s.l.m., ha uno sviluppo complessivo di oltre 2 km, ma il percorso turistico è ridotto a circa m 500 con permanenza nel sottosuolo di circa 1 ora. Si trova a circa 2 km ad Ovest di Brisighella. Le grotte del Parco Regionale della Vena del Gesso sono un mondo buio e nascosto, e tuttavia straordinario. È un alternarsi di corsi d’acqua, gallerie, sale, pozzi e cunicoli con diffusa presenza di concrezioni, erosioni, e riempimenti unici nel loro genere. Anche chi non è speleologo può conoscere, in parte, i fenomeni carsici della Vena del Gesso, proprio attraverso la Grotta Tanaccia. Le prime esplorazioni di questa grotta portarono alla luce anche alcuni reperti preistorici.
Grotta "La Tanaccia"
SP23
Tanaccia di Brisighella, una tra le più belle e conosciute grotte dell’intera Vena del Gesso romagnola, presenta un percorso ipogeo con ambienti suggestivi arricchiti da interessanti fenomeni carsici; è possibile visitarla tutto l’anno, con esclusione del periodo invernale per tutelare il letargo dei pipistrelli. Il complesso carsico della Tanaccia, posto a circa 200 m. s.l.m., ha uno sviluppo complessivo di oltre 2 km, ma il percorso turistico è ridotto a circa m 500 con permanenza nel sottosuolo di circa 1 ora. Si trova a circa 2 km ad Ovest di Brisighella. Le grotte del Parco Regionale della Vena del Gesso sono un mondo buio e nascosto, e tuttavia straordinario. È un alternarsi di corsi d’acqua, gallerie, sale, pozzi e cunicoli con diffusa presenza di concrezioni, erosioni, e riempimenti unici nel loro genere. Anche chi non è speleologo può conoscere, in parte, i fenomeni carsici della Vena del Gesso, proprio attraverso la Grotta Tanaccia. Le prime esplorazioni di questa grotta portarono alla luce anche alcuni reperti preistorici.
La Grotta del Re Tiberio di Riolo Terme è la parte terminale di un vasto sistema di cavità naturali che ha uno sviluppo complessivo di oltre 6 km e un dislivello di 223 m.. Queste grotte drenano le acque dell'area di Monte Tondo. I torrenti sotterranei, dopo un percorso esterno di alcune centinaia di metri, confluiscono nel Fiume Senio. Le grotte si sviluppano su più livelli: le gallerie poste a quote superiori sono state abbandonate dalle acque a seguito del progressivo abbassamento del Senio. L'acqua, sciogliendo la roccia gessosa, ha così generato un vasto reticolo sotterraneo di gallerie, cunicoli, pozzi e sale che, a parte il tratto turistico, sono, in genere, difficilmente percorribili. L'attività estrattiva, sia in sotterraneo che all'esterno, ha intercettato in più punti le grotte distruggendole in parte e alterando il percorso sotterraneo delle acque che ora tornano a giorno tramite una galleria di cava. Frequentata da tempo immemorabile, la Grotta del Re Tiberio ha conosciuto le prime esplorazioni speleologiche all'inizio del secolo scorso. La Grotta costituisce uno dei contesti archeologici più noti e interessanti della regione. Grazie alla recente ripresa delle indagini archeologiche è stata messa in luce una stratigrafia completa dei depositi più interni, fino a raggiungere il piano basale interessato dalla presenza di nicchie e anfratti sepolcrali. Sì è avuto così modo di accertare che la grotta venne utilizzata a scopi funerari già a partire dall'età del rame e fino al Bronzo Antico (tra il III e gli inizi del II millennio a.C.) con deposizioni primarie e attestazione di complessi riti di manipolazione delle ossa. Quanto alla successiva fase di frequentazione di tipo cultuale, è stato riportato in luce l'intero sistema di vaschette votive della parete d'ingresso, ne è stato effettuato il rilievo con metodologia laser-scanner e si è avuta conferma della sua continuità dalla metà del I millennio a.C. fino ad età romana-imperiale. Essa continuò ad essere frequentata dall'uomo anche in tempi recenti, con finalità ovviamente diverse da quelle funerarie e di culto proprie delle età del Rame, del Bronzo e del Ferro e del periodo romano. Verso la metà dell'Ottocento, il guano accumulatosi nella grotta fu ad esempio sfruttato per essere impiegato come fertilizzante. Tra XIX e XX sec. cominciò invece una stagione di intenso studio scientifico: geologia, archeologia, speleologia. Nell'inverno tra il 1944 e il 1945 il fronte della Seconda Guerra Mondiale si fermò per molti mesi lungo l'asta del Torrente Senio: alcune famiglie locali decisero di sfollare, per un periodo limitato, all'interno della nostra cavità. Ne è una conferma diretta una scritta a carboncino, datata 1944, ancora oggi ben leggibile in una delle pareti gessose. Ma, sino al recente passato, la frequentazione più cospicua era probabilmente legata a gente comune e semplici curiosi, che vi si recavano affascinati da una leggenda qui ambientata: il nome della cavità sarebbe derivato dall'omonimo Imperatore romano, il quale si sarebbe nascosto a lungo all'interno per sfuggire ad una profezia che lo voleva morto a causa di un fulmine. Stanco dell'isolamento, in una giornata serena egli uscì infine all'aperto, ma il tempo cambiò repentinamente e Tiberio morì folgorato così come predettogli. Tale leggenda, simboleggiante l'ineluttabilità del destino e in passato molto famosa in tutta la Romagna, fu oggetto di rielaborazioni poetiche, artistiche e persino teatrali da parte di numerosi autori. Sulle pareti nei dintorni della grotta del Re Tiberio vegeta la rara felce Cheilanthes persica, al limite occidentale dell'area di distribuzione, che va da Monte Mauro a Monte Tondo; all'ingresso della grotta si trovano ancora alcuni esemplari di un'altra felce, Adiantum capillus-veneris, mentre la rarissima Asplenium sagittatum è data per estinta da oltre 50 anni. Il sistema di grotte e gallerie dei Gessi di Monte Tondo ospita ben 15 specie di pipistrelli, con importanti colonie riproduttive o invernali di miniottero, vespertilio maggiore, vespertilio di Blyth e ferro di cavallo eurìale. Le pareti attorno alla grotta ospitano una piccola colonia riproduttiva della rondine montana, specie insolita a quote così basse e, in inverno, alcuni esemplari del picchio muraiolo e di sordone. La grotta ospita anche un'interessante fauna invertebrata, con ben otto specie troglobie ed eutroglofile (cioè esclusivamente o prevalentemente cavernicole), tra cui il piccolo gamberetto diafano Niphargus gruppo longicaudatus, l'isopode Androniscus dentiger, due specie di acari endemiche del Re Tiberio (Medioppia melisi e Ramusella caporiacci) e la bella cavalletta Dolichopoda laetitiae.
Grotta del Re Tiberio
La Grotta del Re Tiberio di Riolo Terme è la parte terminale di un vasto sistema di cavità naturali che ha uno sviluppo complessivo di oltre 6 km e un dislivello di 223 m.. Queste grotte drenano le acque dell'area di Monte Tondo. I torrenti sotterranei, dopo un percorso esterno di alcune centinaia di metri, confluiscono nel Fiume Senio. Le grotte si sviluppano su più livelli: le gallerie poste a quote superiori sono state abbandonate dalle acque a seguito del progressivo abbassamento del Senio. L'acqua, sciogliendo la roccia gessosa, ha così generato un vasto reticolo sotterraneo di gallerie, cunicoli, pozzi e sale che, a parte il tratto turistico, sono, in genere, difficilmente percorribili. L'attività estrattiva, sia in sotterraneo che all'esterno, ha intercettato in più punti le grotte distruggendole in parte e alterando il percorso sotterraneo delle acque che ora tornano a giorno tramite una galleria di cava. Frequentata da tempo immemorabile, la Grotta del Re Tiberio ha conosciuto le prime esplorazioni speleologiche all'inizio del secolo scorso. La Grotta costituisce uno dei contesti archeologici più noti e interessanti della regione. Grazie alla recente ripresa delle indagini archeologiche è stata messa in luce una stratigrafia completa dei depositi più interni, fino a raggiungere il piano basale interessato dalla presenza di nicchie e anfratti sepolcrali. Sì è avuto così modo di accertare che la grotta venne utilizzata a scopi funerari già a partire dall'età del rame e fino al Bronzo Antico (tra il III e gli inizi del II millennio a.C.) con deposizioni primarie e attestazione di complessi riti di manipolazione delle ossa. Quanto alla successiva fase di frequentazione di tipo cultuale, è stato riportato in luce l'intero sistema di vaschette votive della parete d'ingresso, ne è stato effettuato il rilievo con metodologia laser-scanner e si è avuta conferma della sua continuità dalla metà del I millennio a.C. fino ad età romana-imperiale. Essa continuò ad essere frequentata dall'uomo anche in tempi recenti, con finalità ovviamente diverse da quelle funerarie e di culto proprie delle età del Rame, del Bronzo e del Ferro e del periodo romano. Verso la metà dell'Ottocento, il guano accumulatosi nella grotta fu ad esempio sfruttato per essere impiegato come fertilizzante. Tra XIX e XX sec. cominciò invece una stagione di intenso studio scientifico: geologia, archeologia, speleologia. Nell'inverno tra il 1944 e il 1945 il fronte della Seconda Guerra Mondiale si fermò per molti mesi lungo l'asta del Torrente Senio: alcune famiglie locali decisero di sfollare, per un periodo limitato, all'interno della nostra cavità. Ne è una conferma diretta una scritta a carboncino, datata 1944, ancora oggi ben leggibile in una delle pareti gessose. Ma, sino al recente passato, la frequentazione più cospicua era probabilmente legata a gente comune e semplici curiosi, che vi si recavano affascinati da una leggenda qui ambientata: il nome della cavità sarebbe derivato dall'omonimo Imperatore romano, il quale si sarebbe nascosto a lungo all'interno per sfuggire ad una profezia che lo voleva morto a causa di un fulmine. Stanco dell'isolamento, in una giornata serena egli uscì infine all'aperto, ma il tempo cambiò repentinamente e Tiberio morì folgorato così come predettogli. Tale leggenda, simboleggiante l'ineluttabilità del destino e in passato molto famosa in tutta la Romagna, fu oggetto di rielaborazioni poetiche, artistiche e persino teatrali da parte di numerosi autori. Sulle pareti nei dintorni della grotta del Re Tiberio vegeta la rara felce Cheilanthes persica, al limite occidentale dell'area di distribuzione, che va da Monte Mauro a Monte Tondo; all'ingresso della grotta si trovano ancora alcuni esemplari di un'altra felce, Adiantum capillus-veneris, mentre la rarissima Asplenium sagittatum è data per estinta da oltre 50 anni. Il sistema di grotte e gallerie dei Gessi di Monte Tondo ospita ben 15 specie di pipistrelli, con importanti colonie riproduttive o invernali di miniottero, vespertilio maggiore, vespertilio di Blyth e ferro di cavallo eurìale. Le pareti attorno alla grotta ospitano una piccola colonia riproduttiva della rondine montana, specie insolita a quote così basse e, in inverno, alcuni esemplari del picchio muraiolo e di sordone. La grotta ospita anche un'interessante fauna invertebrata, con ben otto specie troglobie ed eutroglofile (cioè esclusivamente o prevalentemente cavernicole), tra cui il piccolo gamberetto diafano Niphargus gruppo longicaudatus, l'isopode Androniscus dentiger, due specie di acari endemiche del Re Tiberio (Medioppia melisi e Ramusella caporiacci) e la bella cavalletta Dolichopoda laetitiae.
Nel cuore della Romagna esiste un paradiso incontaminato dove fare il bagno tra rocce e cascate, un posto sconosciuto anche a tanti romagnoli, eppure inserito niente meno che dal prestigioso quotidiano inglese Financial Times nella lista dei migliori luoghi selvaggi dove fare il bagno in Italia: è la "Grotta urlante" di Premilcuore. Qui il ripido corso del fiume Rabbi si inalvea in un gorgo e forma una cascata che travolge le depressioni presenti tra le rocce, fino a riversarsi in uno spettacolare abisso, sotto un antico ponte in pietra del XVII sec.. Il rumore generato dall'acqua e amplificato dall'acustica naturale è tale che da sempre questo luogo viene chiamato la grotta urlante. Nella grotta si formano due pozze ampie, circondate da rocce levigate dal corso dei millenni, ideali per stendersi e per tuffarsi nelle limpide e fredde acque del fiume. Si tratta di un luogo talmente bello da essere stato inserito nel libro "Wild swimming Italy. Da quell'articolo, uscito nel 2015, la fama della grotta urlante è aumentata, ma il luogo continua ad essere non troppo affollato e ideale per trascorre una giornata in pace pressoché totale. Dalla grotta si può seguire il corso del fiume e incontrare altre piscine naturali dove fare il bagno e tuffarsi. Circa un chilometro ancora e si incontrano la Cascata della Sega, una cascata doppia molto suggestiva, e la Seghina, più piccola ma comunque affascinante.
Cascata Urlante Premilcuore
Nel cuore della Romagna esiste un paradiso incontaminato dove fare il bagno tra rocce e cascate, un posto sconosciuto anche a tanti romagnoli, eppure inserito niente meno che dal prestigioso quotidiano inglese Financial Times nella lista dei migliori luoghi selvaggi dove fare il bagno in Italia: è la "Grotta urlante" di Premilcuore. Qui il ripido corso del fiume Rabbi si inalvea in un gorgo e forma una cascata che travolge le depressioni presenti tra le rocce, fino a riversarsi in uno spettacolare abisso, sotto un antico ponte in pietra del XVII sec.. Il rumore generato dall'acqua e amplificato dall'acustica naturale è tale che da sempre questo luogo viene chiamato la grotta urlante. Nella grotta si formano due pozze ampie, circondate da rocce levigate dal corso dei millenni, ideali per stendersi e per tuffarsi nelle limpide e fredde acque del fiume. Si tratta di un luogo talmente bello da essere stato inserito nel libro "Wild swimming Italy. Da quell'articolo, uscito nel 2015, la fama della grotta urlante è aumentata, ma il luogo continua ad essere non troppo affollato e ideale per trascorre una giornata in pace pressoché totale. Dalla grotta si può seguire il corso del fiume e incontrare altre piscine naturali dove fare il bagno e tuffarsi. Circa un chilometro ancora e si incontrano la Cascata della Sega, una cascata doppia molto suggestiva, e la Seghina, più piccola ma comunque affascinante.

Eremo in provincia di Forlì

Balze frazione di Verghereto L'Eremo di Sant'Alberico è l'unico di tanti cenobi e romitaggi medievali di questa zona rimasto attivo fino ai giorni nostri. La vita del fondatore Alberico, morto intorno al 1050, è scarsamente documentata: costruì sotto un aspro versante del Fumaiolo un romitorio – una cella e due grotte scavate nella roccia - ove visse in penitenza e santità, operando miracoli e guarendo malattie addominali ed ernie. L'eremo, di fondazione benedettina, passò ai Camaldolesi che lo custodirono dal XII sec. fino al 1822 quando, unitamente alla vicina "grancia" o fattoria che possedevano nella vicina Cella "inter ambas Paras", fu venduto a privati e prestò rovinò. Fu monsignor Francesco Dezzi della Falera (1842-1921) a toglierlo dall'abbandono: ricevutolo in eredità, nel 1873 lo ricostruì dalle fondamenta erigendovi una chiesetta e qualche stanza per il romito; ma soprattutto ridette vigore al culto di Sant'Alberico, la cui venerazione s'era diffusa per una vasta area tra Romagna, Toscana e Marche. L'eremo è stato poi sempre custodito da un romito laico. Oggi l'eremo è intimamente legato all'apostolato silenzioso, alla dura penitenza e carità infinita di don Quintino Sicuro (1920-1968), asceta di straordinaria levatura morale. Vestito d'uno spolverino bianco, sandali, barba lunga, vi arrivò dalla Puglia, nel giugno del 1954 quando era cadente ed abbandonato. Dopo anni di penitenza e preghiera, raggiunse la consacrazione sacerdotale nel dicembre del 1961; indi tra il 1965 e il 1967, con povertà di mezzi, iniziò a ricostruirlo integralmente, facendolo più grande ed ospitale cenacolo ove ritemprare ed educare lo spirito, riconsacrandolo col suo esempio. Da quella solitudine irradiò una forte testimonianza cristiana che portava a lui devoti da ogni parte. Ora riposa in un masso scavato con le sue mani, all'aperto, di fronte alla chiesa. Per lui, nel 1985, è stata introdotta la causa di beatificazione e canonizzazione. Il successore, frate Vincenzo Minutello, pugliese anch'egli e suo collaboratore fin dal 1962, ne è stato custode fino al 2006, anno di sua morte. Oggi è affidato all'eremita Giovanbattista Ferro. Nella chiesetta di pietra ad una navata si conservano una tibia del Santo fondatore ed una statua in pietra, che i fedeli usano appoggiare sull'addome per ottenere il miracolo della guarigione. L'eremo è attrezzato per l'accoglienza con pernottamento (13 posti) solo per ritiri ed esercizi spirituali. Il 29 agosto si celebra, con grande concorso di fedeli, la secolare Festa di Sant'Alberico.
Eremo di Sant'Alberico
87 Via S. Alberico
Balze frazione di Verghereto L'Eremo di Sant'Alberico è l'unico di tanti cenobi e romitaggi medievali di questa zona rimasto attivo fino ai giorni nostri. La vita del fondatore Alberico, morto intorno al 1050, è scarsamente documentata: costruì sotto un aspro versante del Fumaiolo un romitorio – una cella e due grotte scavate nella roccia - ove visse in penitenza e santità, operando miracoli e guarendo malattie addominali ed ernie. L'eremo, di fondazione benedettina, passò ai Camaldolesi che lo custodirono dal XII sec. fino al 1822 quando, unitamente alla vicina "grancia" o fattoria che possedevano nella vicina Cella "inter ambas Paras", fu venduto a privati e prestò rovinò. Fu monsignor Francesco Dezzi della Falera (1842-1921) a toglierlo dall'abbandono: ricevutolo in eredità, nel 1873 lo ricostruì dalle fondamenta erigendovi una chiesetta e qualche stanza per il romito; ma soprattutto ridette vigore al culto di Sant'Alberico, la cui venerazione s'era diffusa per una vasta area tra Romagna, Toscana e Marche. L'eremo è stato poi sempre custodito da un romito laico. Oggi l'eremo è intimamente legato all'apostolato silenzioso, alla dura penitenza e carità infinita di don Quintino Sicuro (1920-1968), asceta di straordinaria levatura morale. Vestito d'uno spolverino bianco, sandali, barba lunga, vi arrivò dalla Puglia, nel giugno del 1954 quando era cadente ed abbandonato. Dopo anni di penitenza e preghiera, raggiunse la consacrazione sacerdotale nel dicembre del 1961; indi tra il 1965 e il 1967, con povertà di mezzi, iniziò a ricostruirlo integralmente, facendolo più grande ed ospitale cenacolo ove ritemprare ed educare lo spirito, riconsacrandolo col suo esempio. Da quella solitudine irradiò una forte testimonianza cristiana che portava a lui devoti da ogni parte. Ora riposa in un masso scavato con le sue mani, all'aperto, di fronte alla chiesa. Per lui, nel 1985, è stata introdotta la causa di beatificazione e canonizzazione. Il successore, frate Vincenzo Minutello, pugliese anch'egli e suo collaboratore fin dal 1962, ne è stato custode fino al 2006, anno di sua morte. Oggi è affidato all'eremita Giovanbattista Ferro. Nella chiesetta di pietra ad una navata si conservano una tibia del Santo fondatore ed una statua in pietra, che i fedeli usano appoggiare sull'addome per ottenere il miracolo della guarigione. L'eremo è attrezzato per l'accoglienza con pernottamento (13 posti) solo per ritiri ed esercizi spirituali. Il 29 agosto si celebra, con grande concorso di fedeli, la secolare Festa di Sant'Alberico.
Pietrapazza frazione di Bagno di Romagna Si trova sul sentiero CAI 205 che da Pietrapazza porta al Passo della Bertesca. La presenza dell’Eremo camaldolese è documentata dall’XI sec.. Il 1511 fu l’anno di inizio della costruzione del podere omonimo che nel 1853 fu distrutto da una frana. Ricostruito poco più a valle da Emiliano Rossi nel 1870 diventa “Osteria dell’Ermonovo” di Filippo Mazzi. Nel 1908 Maurizio e Paolo Milanesi lo acquistano dai frati camaldolesi e nel 1914 fu abitato dalla famiglia Rossi che nel 1934 acquistarono la metà del podere da Paolo Milanesi. Nel 1963 verrà definitivamente abbandonato da Orlando Rossi e Maurizio Milanesi.
Eremo Nuovo
Pietrapazza frazione di Bagno di Romagna Si trova sul sentiero CAI 205 che da Pietrapazza porta al Passo della Bertesca. La presenza dell’Eremo camaldolese è documentata dall’XI sec.. Il 1511 fu l’anno di inizio della costruzione del podere omonimo che nel 1853 fu distrutto da una frana. Ricostruito poco più a valle da Emiliano Rossi nel 1870 diventa “Osteria dell’Ermonovo” di Filippo Mazzi. Nel 1908 Maurizio e Paolo Milanesi lo acquistano dai frati camaldolesi e nel 1914 fu abitato dalla famiglia Rossi che nel 1934 acquistarono la metà del podere da Paolo Milanesi. Nel 1963 verrà definitivamente abbandonato da Orlando Rossi e Maurizio Milanesi.
Civitella di Romagna L'Eremo Petrella “Cenacolo San Lorenzo” situato sulle boschive e silenti colline romagnole dell’Appennino cesenate, nell’angusta e intatta valle del torrente Borello, adagiato su un emergente roccione arenario, un millenario e rustico insediamento umano da decenni abbandonato. Immerso nella quiete della vallata è un luogo ideale per assaporare il silenzio, la natura, la pace. Le suore Missionarie del Cenacolo accolgono singoli, piccoli gruppi e famiglie per giornate di riflessione e spiritualità, ritiri, esercizi spirituali e brevi periodi di vacanze.
Eremo di Petrella
Civitella di Romagna L'Eremo Petrella “Cenacolo San Lorenzo” situato sulle boschive e silenti colline romagnole dell’Appennino cesenate, nell’angusta e intatta valle del torrente Borello, adagiato su un emergente roccione arenario, un millenario e rustico insediamento umano da decenni abbandonato. Immerso nella quiete della vallata è un luogo ideale per assaporare il silenzio, la natura, la pace. Le suore Missionarie del Cenacolo accolgono singoli, piccoli gruppi e famiglie per giornate di riflessione e spiritualità, ritiri, esercizi spirituali e brevi periodi di vacanze.
A due chilometri da Ciola, lungo la strada per la frazione di Musella, c'è la Fonte di San Vicinio (santo al quale è dedicata la basilica di Sarsina), meta di pellegrinaggio per le proprietà di donare fertilità attribuita all'acqua, molto fresca, che sgorga dalla formazione rocciosa nota con il nome di "marnoso-arenacea romagnola" del Miocene medio. A poco distanza dalla fonte si trova un tempietto settecentesco eretto sulla sommità di un rilievo (610 mt.), detto Monte di S. Vicinio. Nel 1944 tutta la zona fu teatro di aspri scontri fra le truppe alleate e quelle tedesche,
Monte San Vicinio
A due chilometri da Ciola, lungo la strada per la frazione di Musella, c'è la Fonte di San Vicinio (santo al quale è dedicata la basilica di Sarsina), meta di pellegrinaggio per le proprietà di donare fertilità attribuita all'acqua, molto fresca, che sgorga dalla formazione rocciosa nota con il nome di "marnoso-arenacea romagnola" del Miocene medio. A poco distanza dalla fonte si trova un tempietto settecentesco eretto sulla sommità di un rilievo (610 mt.), detto Monte di S. Vicinio. Nel 1944 tutta la zona fu teatro di aspri scontri fra le truppe alleate e quelle tedesche,
Montepaolo è una località che si trova a sette chilometri da Dovadola (presso Forlì) ed ospita un eremo dedicato a Sant'Antonio di Padova, che costituisce il più importante santuario antoniano dell'Emilia-Romagna. La storia di Montepaolo è indissolubilmente legata a quella di sant'Antonio, che per due volte fu presente in questo luogo. Antonio di Padova nella primavera del 1221 incontrò san Francesco ad Assisi, dove si era svolto il capitolo dei frati minori. Terminato il capitolo, il giovane portoghese fu notato da frate Graziano, che le fonti antoniane qualificano con il titolo di ministro dei frati minori di Romagna, il quale inviò Antonio proprio in un eremo a Montepaolo, dove già risiedeva una piccola comunità di frati. Per lo studio e la preghiera personale, Antonio usava una grotta naturale che era presente sulla collinetta boscosa dell'eremo. Nel 1222, dopo una sorprendente e inaspettata predica da lui tenuta per obbedienza al vescovo, a Forlì, e che costituì la sua prima predica pubblica, Antonio fu chiamato a svolgere a tempo pieno il servizio di predicatore e dovette lasciare Montepaolo. Vi soggiornò una seconda volta per breve tempo nel 1228 quando, diventato Provinciale dell'Ordine, dovette compiere la visita canonica presso tutte la comunità della propria provincia. I frati francescani nel corso degli anni abbandonarono l'eremo, e l'accesso stesso alla grotta nel XVII secolo fu impedito da una frana. Nel 1629 il nobile Giacomo Paganelli di Castrocaro fece costruire sulla collina di Montepaolo una cappella in onore a sant'Antonio di Padova, come ex voto. Nel 1790 la cappella venne ampliata, vi si costruì accanto una casa canonica mentre la grotta veniva resa di nuovo accessibile; ma solo nel 1898 i frati tornarono ad abitare l'antico eremo. Il 15 agosto 1905, la grotta, oggetto di ulteriori lavori di restauro, venne benedetta, mentre, il 29 giugno 1908, il Vescovo di Forlì Raimondo Jaffei, amministratore della Diocesi di Modigliana, pose la prima pietra del nuovo Santuario, che fu consacrato, il 7 settembre 1913, dal vescovo di Modigliana Luigi Capotosti. Nel 1932 si completò la costruzione del campanile annesso alla Chiesa, neogotica. Verso la metà degli anni Novanta, vi giunse come rettore padre Ernesto Caroli, che restaurò il Santuario e vi ravvivò la vita spirituale rimanendo in carica fino al 2003. Dopo la partenza della comunità francescana dei Frati minori, l'eremo è oggi abitato dalle Monache clarisse, precedentemente dimoranti nel Monastero di santa Chiara di Faenza. All'interno della chiesa è custodita una reliquia del Santo, recentemente prelevata dal corpo custodito presso la Basilica di Sant'Antonio di Padova. Nei pressi del santuario, seguendo il "sentiero della speranza", si raggiunge la piccola cappella ("grotta"), che ricorda il luogo in cui il Santo secondo la tradizione si raccolse in preghiera. Il "viale dei mosaici” mostra invece la storia del santuario. L'eremo di Montepaolo è il punto di passaggio del Cammino di Sant'Antonio che parte da Camposampiero (Pd) e dalla Basilica del Santo (Pd) e si dirige al santuario francescano de La Verna. Dall'eremo ha pure la sua partenza il pellegrinaggio detto Cammino di Assisi.
Eremo Santuario Montepaolo - Suore Clarisse
24 Via Montepaolo
Montepaolo è una località che si trova a sette chilometri da Dovadola (presso Forlì) ed ospita un eremo dedicato a Sant'Antonio di Padova, che costituisce il più importante santuario antoniano dell'Emilia-Romagna. La storia di Montepaolo è indissolubilmente legata a quella di sant'Antonio, che per due volte fu presente in questo luogo. Antonio di Padova nella primavera del 1221 incontrò san Francesco ad Assisi, dove si era svolto il capitolo dei frati minori. Terminato il capitolo, il giovane portoghese fu notato da frate Graziano, che le fonti antoniane qualificano con il titolo di ministro dei frati minori di Romagna, il quale inviò Antonio proprio in un eremo a Montepaolo, dove già risiedeva una piccola comunità di frati. Per lo studio e la preghiera personale, Antonio usava una grotta naturale che era presente sulla collinetta boscosa dell'eremo. Nel 1222, dopo una sorprendente e inaspettata predica da lui tenuta per obbedienza al vescovo, a Forlì, e che costituì la sua prima predica pubblica, Antonio fu chiamato a svolgere a tempo pieno il servizio di predicatore e dovette lasciare Montepaolo. Vi soggiornò una seconda volta per breve tempo nel 1228 quando, diventato Provinciale dell'Ordine, dovette compiere la visita canonica presso tutte la comunità della propria provincia. I frati francescani nel corso degli anni abbandonarono l'eremo, e l'accesso stesso alla grotta nel XVII secolo fu impedito da una frana. Nel 1629 il nobile Giacomo Paganelli di Castrocaro fece costruire sulla collina di Montepaolo una cappella in onore a sant'Antonio di Padova, come ex voto. Nel 1790 la cappella venne ampliata, vi si costruì accanto una casa canonica mentre la grotta veniva resa di nuovo accessibile; ma solo nel 1898 i frati tornarono ad abitare l'antico eremo. Il 15 agosto 1905, la grotta, oggetto di ulteriori lavori di restauro, venne benedetta, mentre, il 29 giugno 1908, il Vescovo di Forlì Raimondo Jaffei, amministratore della Diocesi di Modigliana, pose la prima pietra del nuovo Santuario, che fu consacrato, il 7 settembre 1913, dal vescovo di Modigliana Luigi Capotosti. Nel 1932 si completò la costruzione del campanile annesso alla Chiesa, neogotica. Verso la metà degli anni Novanta, vi giunse come rettore padre Ernesto Caroli, che restaurò il Santuario e vi ravvivò la vita spirituale rimanendo in carica fino al 2003. Dopo la partenza della comunità francescana dei Frati minori, l'eremo è oggi abitato dalle Monache clarisse, precedentemente dimoranti nel Monastero di santa Chiara di Faenza. All'interno della chiesa è custodita una reliquia del Santo, recentemente prelevata dal corpo custodito presso la Basilica di Sant'Antonio di Padova. Nei pressi del santuario, seguendo il "sentiero della speranza", si raggiunge la piccola cappella ("grotta"), che ricorda il luogo in cui il Santo secondo la tradizione si raccolse in preghiera. Il "viale dei mosaici” mostra invece la storia del santuario. L'eremo di Montepaolo è il punto di passaggio del Cammino di Sant'Antonio che parte da Camposampiero (Pd) e dalla Basilica del Santo (Pd) e si dirige al santuario francescano de La Verna. Dall'eremo ha pure la sua partenza il pellegrinaggio detto Cammino di Assisi.
Basilica di San Vicinio a Sarsina Posta su uno dei più antichi cammini storici d’Italia, la basilica di San Vicino deve il suo nome al primo vescovo di Sarsina, figura fondamentale nel processo di evangelizzazione che investì questa parte di Romagna nei primi secoli dopo Cristo. Solenne e austero, l’edificio fu realizzato attorno all’Anno Mille in pieno stile romanico e sottoposto successivamente a rifacimenti e modifiche. Al suo interno è conservata la catena che la tradizione vuole Vinicio indossasse, legata a una pietra, quando si trovava in preghiera. Ancora oggi migliaia di fedeli giungono qui per avere la benedizione dell’imposizione della catena, ritenuta in grado di scacciare il male dall’anima.
Basilica Concattedrale della Vergine Annunziata e San Vicinio
1 Piazza Tito Maccio Plauto
Basilica di San Vicinio a Sarsina Posta su uno dei più antichi cammini storici d’Italia, la basilica di San Vicino deve il suo nome al primo vescovo di Sarsina, figura fondamentale nel processo di evangelizzazione che investì questa parte di Romagna nei primi secoli dopo Cristo. Solenne e austero, l’edificio fu realizzato attorno all’Anno Mille in pieno stile romanico e sottoposto successivamente a rifacimenti e modifiche. Al suo interno è conservata la catena che la tradizione vuole Vinicio indossasse, legata a una pietra, quando si trovava in preghiera. Ancora oggi migliaia di fedeli giungono qui per avere la benedizione dell’imposizione della catena, ritenuta in grado di scacciare il male dall’anima.
Eremo, monastero e bosco di Scardavilla La storia del monastero, dell'eremo e del bosco. La localitá di Scardavilla è ricordata per la prima volta nel 1225, come dipendenza del convento di S. Maria di Vincareto nei pressi di Bertinoro. Il piccolo monastero di S. Maria di Scardavilla, i cui resti parzialmente trasformati sono visibili a Scardavilla di sotto, è meglio descritto in un documento del 1241, dal quale si ricava che i monaci, oltre che alla preghiera e alla contemplazione, si dedicavano alla coltivazione dei campi e all'allevamento del bestiame (soprattutto pecore e maiali); lo stesso toponimo della localitá, del resto, deriva da cardus e villus e richiama la cardatura del vello delle pecore. Dopo essere stato soggetto a varie congregazioni, nei primi anni del XVI sec. il monastero passó alle dipendenze dei monaci camaldolesi, che fin dalla nascita dell'ordine avevano modellato la loro regola sul governo delle celebri foreste del Casentino. La regola, tramandata in un primo tempo oralmente, si presentava come un vero e proprio codice forestale e nelle Costituzioni di Camaldoli del 1639 le antiche consuetudini furono rese obbligatorie anche per i monasteri dipendenti: Siano i detti eremi tra le selve folte, quali col piantare, inserire, tagliare, e con altre diligenze si mantenghino e si accreschino, et peró dentro il circuito dell'Eremo, non sará lecito tagliare arbori, per non guastare la bellezza del luogo.... E' grazie all'osservanza di queste disposizioni che il bosco di Scardavilla si è mantenuto per secoli. Agli inizi del XVII sec. i monaci di Scardavilla avvertirono la necessitá di costruire un nuovo eremo sul boscoso colle di Monte Lipone, che sovrasta il primo cenobio. Dopo varie richieste al priore di Camaldoli, nel 1684 cominciarono i lavori nell'odierna Scardavilla di sopra. L'imponente complesso, terminato nel 1733, era costituito da una pregevole chiesa barocca circondata da dodici celle per gli eremiti, con una cappelletta e un orticello chiuso da un muricciolo all'usanza di Camaldoli; di fronte sorgeva un palazzo a due piani con ampia cantina e pozzo. Intorno all'eremo si estendeva una selva di querce secolari, mentre l'area piú pianeggiante presso l'antico convento era occupata da seminativi arborati. I due nuclei monastici erano allineati lungo un ideale asse prospettico, collegati da un ampio viale di querce e circondati da una cinta muraria di circa due chilometri che racchiudeva anche il bosco e i coltivi circostanti per un totale di una ventina di ettari. Nel 1797, con l'avvento di Napoleone, gli eremiti furono costretti ad abbandonare Scardavilla, e il bosco e i due complessi religiosi, ceduti a privati, cominciarono a degradarsi. Nemmeno il comune di Forlí, che li ebbe in proprietá dal 1859 ai primi anni del '900, riuscí a evitare i tagli abusivi degli alberi piú imponenti. Il rovinoso terremoto del 1870, inoltre, distrusse buona parte del convento e della chiesa di Scardavilla di sotto. Quando nei primi anni di questo secolo il complesso tornó in mano ai privati si accentuarono i tagli del bosco e i danni alle architetture (furono demolite le celle dei monaci). Intorno al 1940 i Missionari della Consolata di Torino restaurarono la chiesa e il palazzo di Scardavilla di sopra. In questo periodo le mura a monte erano ancora ben conservate, mentre a valle erano ormai ridotte al solo basamento. Durante la seconda guerra mondiale la situazione peggioró ulteriormente, con l'abbattimento delle querce piú belle e la scomparsa di ampie porzioni di bosco. Successivamente vennero smantellati anche gli ultimi resti delle mura e la superficie boscata fu ancora ridotta per far posto ai coltivi.
Strada Scardavilla
Strada Scardavilla
Eremo, monastero e bosco di Scardavilla La storia del monastero, dell'eremo e del bosco. La localitá di Scardavilla è ricordata per la prima volta nel 1225, come dipendenza del convento di S. Maria di Vincareto nei pressi di Bertinoro. Il piccolo monastero di S. Maria di Scardavilla, i cui resti parzialmente trasformati sono visibili a Scardavilla di sotto, è meglio descritto in un documento del 1241, dal quale si ricava che i monaci, oltre che alla preghiera e alla contemplazione, si dedicavano alla coltivazione dei campi e all'allevamento del bestiame (soprattutto pecore e maiali); lo stesso toponimo della localitá, del resto, deriva da cardus e villus e richiama la cardatura del vello delle pecore. Dopo essere stato soggetto a varie congregazioni, nei primi anni del XVI sec. il monastero passó alle dipendenze dei monaci camaldolesi, che fin dalla nascita dell'ordine avevano modellato la loro regola sul governo delle celebri foreste del Casentino. La regola, tramandata in un primo tempo oralmente, si presentava come un vero e proprio codice forestale e nelle Costituzioni di Camaldoli del 1639 le antiche consuetudini furono rese obbligatorie anche per i monasteri dipendenti: Siano i detti eremi tra le selve folte, quali col piantare, inserire, tagliare, e con altre diligenze si mantenghino e si accreschino, et peró dentro il circuito dell'Eremo, non sará lecito tagliare arbori, per non guastare la bellezza del luogo.... E' grazie all'osservanza di queste disposizioni che il bosco di Scardavilla si è mantenuto per secoli. Agli inizi del XVII sec. i monaci di Scardavilla avvertirono la necessitá di costruire un nuovo eremo sul boscoso colle di Monte Lipone, che sovrasta il primo cenobio. Dopo varie richieste al priore di Camaldoli, nel 1684 cominciarono i lavori nell'odierna Scardavilla di sopra. L'imponente complesso, terminato nel 1733, era costituito da una pregevole chiesa barocca circondata da dodici celle per gli eremiti, con una cappelletta e un orticello chiuso da un muricciolo all'usanza di Camaldoli; di fronte sorgeva un palazzo a due piani con ampia cantina e pozzo. Intorno all'eremo si estendeva una selva di querce secolari, mentre l'area piú pianeggiante presso l'antico convento era occupata da seminativi arborati. I due nuclei monastici erano allineati lungo un ideale asse prospettico, collegati da un ampio viale di querce e circondati da una cinta muraria di circa due chilometri che racchiudeva anche il bosco e i coltivi circostanti per un totale di una ventina di ettari. Nel 1797, con l'avvento di Napoleone, gli eremiti furono costretti ad abbandonare Scardavilla, e il bosco e i due complessi religiosi, ceduti a privati, cominciarono a degradarsi. Nemmeno il comune di Forlí, che li ebbe in proprietá dal 1859 ai primi anni del '900, riuscí a evitare i tagli abusivi degli alberi piú imponenti. Il rovinoso terremoto del 1870, inoltre, distrusse buona parte del convento e della chiesa di Scardavilla di sotto. Quando nei primi anni di questo secolo il complesso tornó in mano ai privati si accentuarono i tagli del bosco e i danni alle architetture (furono demolite le celle dei monaci). Intorno al 1940 i Missionari della Consolata di Torino restaurarono la chiesa e il palazzo di Scardavilla di sopra. In questo periodo le mura a monte erano ancora ben conservate, mentre a valle erano ormai ridotte al solo basamento. Durante la seconda guerra mondiale la situazione peggioró ulteriormente, con l'abbattimento delle querce piú belle e la scomparsa di ampie porzioni di bosco. Successivamente vennero smantellati anche gli ultimi resti delle mura e la superficie boscata fu ancora ridotta per far posto ai coltivi.
Santuario della Madonna di Corzano Il Santuario, posto sul colle di Corzano (678 slm) che domina l'alta valle del Savio, è sorto nella metà dell'Ottocento per conservare e venerare una immagine della "Madonna col Bambino", raffigurata in un affresco quattrocentesco all'interno di una chiesetta che si ergeva tra le rovine del castello abbandonato. Nel 1835 la Madonna di Corzano, invocata dal popolo, fece cessare i forti terremoti riconducendo a se la devozione: allora si intrapresero lavori che hanno cambiato la fisionomia della chiesetta e del brullo colle. Nel 1923 l'affresco raffigurante la Madonna col Bambino e S. Caterina d'Alessandria fu distaccato dal muro ove era posto e collocato in una teca di legno; negli anni Settanta sono stati effettuati lavori di consolidamento e restauro di tutto il santuario che minacciava crolli. Oggi il santuario di Corzano è un'oasi serena ove natura, fede e storia s'intrecciano in modo suggestivo, facendone meta di pellegrinaggi, passeggiate, escursioni. Almeno dalla metà dell'Ottocento chi ha provveduto fisicamente e custodito il santuario è stato sempre un "romito", cioè un laico che vi abitava, lavorava e raccoglieva elemosine. L'ultimo romito è stato Quirino Maggio da Manduria (1921-1994) che ha abitato a Corzano dal 1969 al 1988: col suo costante caparbio impegno è riuscito ad accellerare i tempi delle burocrazia e spingere la Soprintendenza a riprendere i lavori di restauro al santuario (1975), di nuovo pericolante. Un suo rilievo in bronzo, modellato da Carmelo Puzzolo, lo ricorda ai visitatori sulla soglia del santuario.
Santuario della Madonna di Corzano
snc Via Corzano
Santuario della Madonna di Corzano Il Santuario, posto sul colle di Corzano (678 slm) che domina l'alta valle del Savio, è sorto nella metà dell'Ottocento per conservare e venerare una immagine della "Madonna col Bambino", raffigurata in un affresco quattrocentesco all'interno di una chiesetta che si ergeva tra le rovine del castello abbandonato. Nel 1835 la Madonna di Corzano, invocata dal popolo, fece cessare i forti terremoti riconducendo a se la devozione: allora si intrapresero lavori che hanno cambiato la fisionomia della chiesetta e del brullo colle. Nel 1923 l'affresco raffigurante la Madonna col Bambino e S. Caterina d'Alessandria fu distaccato dal muro ove era posto e collocato in una teca di legno; negli anni Settanta sono stati effettuati lavori di consolidamento e restauro di tutto il santuario che minacciava crolli. Oggi il santuario di Corzano è un'oasi serena ove natura, fede e storia s'intrecciano in modo suggestivo, facendone meta di pellegrinaggi, passeggiate, escursioni. Almeno dalla metà dell'Ottocento chi ha provveduto fisicamente e custodito il santuario è stato sempre un "romito", cioè un laico che vi abitava, lavorava e raccoglieva elemosine. L'ultimo romito è stato Quirino Maggio da Manduria (1921-1994) che ha abitato a Corzano dal 1969 al 1988: col suo costante caparbio impegno è riuscito ad accellerare i tempi delle burocrazia e spingere la Soprintendenza a riprendere i lavori di restauro al santuario (1975), di nuovo pericolante. Un suo rilievo in bronzo, modellato da Carmelo Puzzolo, lo ricorda ai visitatori sulla soglia del santuario.
A tre km da Rocca San Casciano, verso S. Zeno e Galeata, si trova l’abbazia benedettina di San Donnino, dedicata al santo martirizzato a Fidenza nel III sec.. Chiesa e monastero furono retti intorno all’anno Mille, probabilmente alle dipendenze dell’abbazia di San Benedetto in Alpe (risalente al IX sec.) o come eremo dell’abbazia benedettina di Sant’Andrea di Dovadola. La primitiva chiesa, dedicata a San Donnino in Soglio, cioè in trono (come abate), era in origine a tre navate, con abside affrescata da artisti di scuola riminese del Trecento, che raccontavano la vita del santo e di cui restano alcune tracce. Le sculture romaniche erano in pietra d’Istria, i cui frammenti sono stati incastonati nella facciata della chiesa rifatta nel Settecento, a una sola navata e più piccola. Oggi è affiancata dall’ex palazzo abbaziale, che, con la sua base a scarpata e le mura possenti, presenta ancora la struttura difensiva dell’intera costruzione medievale. Questo fu il periodo di massimo splendore di quest’abbazia, centro spirituale, culturale ed economico sull’Appennino; legata all’abbazia di S. Benedetto in Alpe, di S. Ellero e all’eremo di Camaldoli. Aveva anche legami di dominio sui vicini castelli di Montecerro, Orsarola e Montevecchio dei Rocchi, località descritte dalla “Descriptio romandiolae” del cardinal Anglico nel 1371. Nel 1337 San Donnino è citato nel capitolo monastico di quell’anno come secondo monastero della diocesi di Forlimpopoli. Nel 1368 è abate un certo Giacomo, cui si riferisce la scritta “in caratteri gotici posta dietro l’altar maggiore”, ancora visibile. Il monastero fu soppresso dopo il Concilio di Trento (concluso nel 1563), ad opera di San Carlo Borromeo, legato del Papa a Ravenna. Da allora rimase parrocchia. Nella vicina località di Zuccherelle avvenne un presunto miracolo il 21/7/1505 e vi fu costruita una chiesetta dedicata alla Madonna della Fonte, ancor oggi esistente. Nella facciata sopra la porta, sono incastonate alcune sculture in pietra d’Istria della chiesa primitiva con caratteristiche preromane, risalenti forse alla costruzione dell’edificio, avvenuta secondo alcuni, intorno al 1070-1080. La scultura a sinistra rappresenta S. Pietro che regge nella mano destra il pastorale e nell’altra le chiavi del Paradiso; al centro si trova l’Agnello con la croce (Cristo); sulla destra, un monaco con un incensiere fumante. Sotto la scritta “l’abate Pietro fece quest’opera, si trovano tre dei quattro evangelisti (il leone di S. Marco, il vitello di S. Luca e l’uomo angelicato di S. Matteo, rappresentati nel simbolo degli animali apocalittici). Manca l’aquila di S. Giovanni, che si trovava nel proseguimento della pietra. Fanno parte di queste sculture il bassorilievo dei “santi gemini” e le sculture delle colombe che si abbeverano, ora nella chiesa del Suffragio a Rocca San Casciano. Oggi l’abbazia di San Donnino è meta di escursionisti da tutta la Romagna e non solo per la bellezza dell’ambiente e del panorama, oltre che per il fascino spirituale e storico della località.
Abbazia di San Donnino in Soglio
A tre km da Rocca San Casciano, verso S. Zeno e Galeata, si trova l’abbazia benedettina di San Donnino, dedicata al santo martirizzato a Fidenza nel III sec.. Chiesa e monastero furono retti intorno all’anno Mille, probabilmente alle dipendenze dell’abbazia di San Benedetto in Alpe (risalente al IX sec.) o come eremo dell’abbazia benedettina di Sant’Andrea di Dovadola. La primitiva chiesa, dedicata a San Donnino in Soglio, cioè in trono (come abate), era in origine a tre navate, con abside affrescata da artisti di scuola riminese del Trecento, che raccontavano la vita del santo e di cui restano alcune tracce. Le sculture romaniche erano in pietra d’Istria, i cui frammenti sono stati incastonati nella facciata della chiesa rifatta nel Settecento, a una sola navata e più piccola. Oggi è affiancata dall’ex palazzo abbaziale, che, con la sua base a scarpata e le mura possenti, presenta ancora la struttura difensiva dell’intera costruzione medievale. Questo fu il periodo di massimo splendore di quest’abbazia, centro spirituale, culturale ed economico sull’Appennino; legata all’abbazia di S. Benedetto in Alpe, di S. Ellero e all’eremo di Camaldoli. Aveva anche legami di dominio sui vicini castelli di Montecerro, Orsarola e Montevecchio dei Rocchi, località descritte dalla “Descriptio romandiolae” del cardinal Anglico nel 1371. Nel 1337 San Donnino è citato nel capitolo monastico di quell’anno come secondo monastero della diocesi di Forlimpopoli. Nel 1368 è abate un certo Giacomo, cui si riferisce la scritta “in caratteri gotici posta dietro l’altar maggiore”, ancora visibile. Il monastero fu soppresso dopo il Concilio di Trento (concluso nel 1563), ad opera di San Carlo Borromeo, legato del Papa a Ravenna. Da allora rimase parrocchia. Nella vicina località di Zuccherelle avvenne un presunto miracolo il 21/7/1505 e vi fu costruita una chiesetta dedicata alla Madonna della Fonte, ancor oggi esistente. Nella facciata sopra la porta, sono incastonate alcune sculture in pietra d’Istria della chiesa primitiva con caratteristiche preromane, risalenti forse alla costruzione dell’edificio, avvenuta secondo alcuni, intorno al 1070-1080. La scultura a sinistra rappresenta S. Pietro che regge nella mano destra il pastorale e nell’altra le chiavi del Paradiso; al centro si trova l’Agnello con la croce (Cristo); sulla destra, un monaco con un incensiere fumante. Sotto la scritta “l’abate Pietro fece quest’opera, si trovano tre dei quattro evangelisti (il leone di S. Marco, il vitello di S. Luca e l’uomo angelicato di S. Matteo, rappresentati nel simbolo degli animali apocalittici). Manca l’aquila di S. Giovanni, che si trovava nel proseguimento della pietra. Fanno parte di queste sculture il bassorilievo dei “santi gemini” e le sculture delle colombe che si abbeverano, ora nella chiesa del Suffragio a Rocca San Casciano. Oggi l’abbazia di San Donnino è meta di escursionisti da tutta la Romagna e non solo per la bellezza dell’ambiente e del panorama, oltre che per il fascino spirituale e storico della località.
Abbazia di Sant’Andrea Apostolo a Dovadola e la tomba di Benedetta Bianchi Porro Il complesso monumentale di Sant’Andrea in Badia, caratterizzato dal monastero e dalla chiesa, è situato a Dovadola. L’accesso principale al complesso architettonico avviene dal piazzale antistante che collega la Badia alla strada statale tramite un sentiero carrabile. L’aspetto attuale della chiesa riflette la monumentalità originaria Romanica, seppur alterata nel corso dei secoli dagli interventi di restauro che l’hanno mutata in più occasioni: nel Rinascimento, nel XVII, XVIII e XX sec..
Abbazia di Sant'andrea
6 Via Benedetta Bianchi Porro
Abbazia di Sant’Andrea Apostolo a Dovadola e la tomba di Benedetta Bianchi Porro Il complesso monumentale di Sant’Andrea in Badia, caratterizzato dal monastero e dalla chiesa, è situato a Dovadola. L’accesso principale al complesso architettonico avviene dal piazzale antistante che collega la Badia alla strada statale tramite un sentiero carrabile. L’aspetto attuale della chiesa riflette la monumentalità originaria Romanica, seppur alterata nel corso dei secoli dagli interventi di restauro che l’hanno mutata in più occasioni: nel Rinascimento, nel XVII, XVIII e XX sec..
Poggio frazione di San Benedetto in Alpe Come tanti altri antichi edifici, il complesso abbaziale mostra componenti che risalgono a epoche diverse, dal medio evo ai primi decenni del XVIII sec.. Seguiamo un percorso a ritroso nel tempo e osserviamo per primo l'interno dell'attuale chiesa. L'iscrizione di una lapide vicina alla porta di ingresso attesta che i lavori di ricostruzione della chiesa furono completati nel 1723. La chiesa nasconde però molto più di quello che mostra. Occorre quindi fare alcuni passi indietro nel tempo. La chiesa venne ricostruita perché alcune parti del precedente edificio erano collassate. Ma non fu ripristinata nelle sue precedenti linee architettoniche, le cui caratteristiche sono sufficientemente note e ribadite anche dalle risultanze di uno scavo archeologico effettuato nel 1987 a cura della Sovrintendenza ai beni archeologici. L'antica chiesa aveva una grande cripta posta sotto il presbiterio e l'altare maggiore, con diramazione sotto i due transetti. Il complesso abbaziale comprendeva anche il convento, il chiostro e un sistema fortificato. L'originario edificio medioevale non è andato però completamente perso. Le parti dell'Abbazia che si sono conservate valgono una visita a San Benedetto. Sono anche oggi visibili: il muro perimetrale destro, inglobato e riutilizzato nella nuova chiesa. Vi si riconoscono l'arco di accesso dal presbiterio al transetto e una porta con arco a tutto sesto; l'alto campanile a vela; l'attacco dell'abside semicircolare; il grande arco di accesso al pronao, già di ingresso al convento e ora alla chiesa; un vano con soffitto voltato a crociera a ridosso del presbiterio; una torre di vedetta munita di feritoie balestriere; elementi (le colonne di pietra) di una porzione del chiostro con il pozzo, ora non più centrale, ma addossato al muro della chiesa; la cripta del transetto di destra. Ed è proprio la cripta che più impressiona il visitatore. La cripta La maggior parte della cripta dell'antica chiesa è rimasta coinvolta nella demolizione settecentesca. Ma è rimasta intatta, ed è tuttora molto suggestiva, la parte corrispondente al transetto di destra. La cripta ospita ora le presunte reliquie dei martiri cristiani Primo e Feliciano, che in precedenza erano collocate sotto l'altare maggiore. Gli scavi archeologici del 1987, compiuti in una porzione dell'area dove sorgeva l'antica chiesa, hanno messo in luce i resti della parte centrale della cripta, che è risultata suddivisa in tre navate da pilastrini ottagoni con terminazione quadrata, in arenaria, su cui poggiavano capitelli a tronco di piramide. L'accesso si apriva sulla navata mediante due scale disposte simmetricamente. Si può ora entrare nell'area degli scavi attraverso la parte di cripta rimasta intatta. Il dibattito sulle origini Non ci sono documenti che ci indichino con certezza quando ebbe origine l'insediamento monastico e quando fu eretta l'Abbazia. Qualche indicazione sulla datazione dell'edificio ci viene dai responsabili degli scavi del 1987, i quali, pur premettendo che “nessun documento né dato materiale ci informa circa la cronologia dell'edificio”, così concludono: “Da un punto di vista strutturale la cripta nasce intorno alla chiesa, non appartiene cioè ad un edificio preesistente. Una datazione intorno alla prima metà del sec. XI potrebbe indizialmente essere proposta”. In questa sede accenniamo solo al fatto che sono numerosi i documenti antichi che riguardano, o comunque citano, l'Abbazia di San Benedetto in Alpe. Le fonti relative all'Abbazia risalgono agli inizi del sec. XI, anche se l'esistenza di un nucleo di eremiti in questa zona può essere assegnata a periodi precedenti. É documentato che, grazie a donazioni e acquisti, quella di San Benedetto in Alpe era nel XII sec. una delle più ricche e potenti abbazie dell'Appennino tosco-romagnolo. I possedimenti dell'Abbazia si estendevano nelle diocesi di Forlì, Forlimpopoli, Faenza e Firenze. Il monastero raggiunse l'apice della sua influenza durante il XIII sec., quando anche i fabbricati che lo componevano assunsero notevoli dimensioni: tutta l'area dell'attuale abitato di Poggio era infatti allora probabilmente occupata dalle celle dei monaci, le quali su due file formavano un borgo ai lati della strada rettilinea che ancora oggi parte dalla chiesa abbaziale. I secoli XIV e XV segnano la decadenza dell'Abbazia, che vede progressivamente diminuire i suoi monaci, finché nel 1499 l'Abate di San Benedetto consegna i pochi beni e i privilegi che ancora l'Abbazia possedeva nelle mani di Papa Alessandro VI. Come prima conseguenza viene soppresso nell'Abbazia l'Ordine benedettino e nell'anno 1500 l'unico monaco rimasto ha il solo compito delle funzioni proprie della chiesa. Così finisce la vita e l'autonomia della grande Abbazia di San Benedetto. Dopo essere passata all'amministrazione dell'Abbazia di Vallombrosa nel 1526 viene concessa per sempre al Capitolo della basilica di San Lorenzo”. Ridotta l'Abbazia a semplice parrocchia, i fabbricati furono trascurati. Le antiche pergamene Da queste pergamene del monastero si ha la prova dell'importanza e del prestigio che aveva l'Abbazia. Il fondo monastico è custodito presso l'Archivio Capitolare della Basilica di San Lorenzo in Firenze ed è collocato nella prima delle quattro grandi sezioni nelle quali è suddiviso l'archivio. Si tratta di 165 pergamene la maggior parte delle quali risalenti ai secoli dal XII al XV. A questo fondo vanno aggiunte due carte di enfiteusi custodite nell'Archivio Arcivescovile di Ravenna, una Bolla papale di Callisto II datata 1125, edita nel Bullarium Laurentianum e un atto del 1103 conservato presso l'Archivio di Stato di Firenze. Conclusione Conosciuta e studiata dagli storici, dai letterati e dagli storici dell'arte, l'Abbazia di San Benedetto in Alpe è poco nota al grande pubblico. Infine un consiglio per i visitatori. Per accedere al chiostro-cortile con pozzo (che oggi è un piccolo e delizioso giardino curato dalle signore Domenica e Giovanna Rabiti), e poi da lì alla cripta, bisogna entrare dalla prima porta a destra dell'ingresso della chiesa. Il cortile è anche un terrazzo per ammirare il panorama della valle e dei monti che la circondano. Non perdetevelo!!!
Abbazia Benedettina
Via Poggio
Poggio frazione di San Benedetto in Alpe Come tanti altri antichi edifici, il complesso abbaziale mostra componenti che risalgono a epoche diverse, dal medio evo ai primi decenni del XVIII sec.. Seguiamo un percorso a ritroso nel tempo e osserviamo per primo l'interno dell'attuale chiesa. L'iscrizione di una lapide vicina alla porta di ingresso attesta che i lavori di ricostruzione della chiesa furono completati nel 1723. La chiesa nasconde però molto più di quello che mostra. Occorre quindi fare alcuni passi indietro nel tempo. La chiesa venne ricostruita perché alcune parti del precedente edificio erano collassate. Ma non fu ripristinata nelle sue precedenti linee architettoniche, le cui caratteristiche sono sufficientemente note e ribadite anche dalle risultanze di uno scavo archeologico effettuato nel 1987 a cura della Sovrintendenza ai beni archeologici. L'antica chiesa aveva una grande cripta posta sotto il presbiterio e l'altare maggiore, con diramazione sotto i due transetti. Il complesso abbaziale comprendeva anche il convento, il chiostro e un sistema fortificato. L'originario edificio medioevale non è andato però completamente perso. Le parti dell'Abbazia che si sono conservate valgono una visita a San Benedetto. Sono anche oggi visibili: il muro perimetrale destro, inglobato e riutilizzato nella nuova chiesa. Vi si riconoscono l'arco di accesso dal presbiterio al transetto e una porta con arco a tutto sesto; l'alto campanile a vela; l'attacco dell'abside semicircolare; il grande arco di accesso al pronao, già di ingresso al convento e ora alla chiesa; un vano con soffitto voltato a crociera a ridosso del presbiterio; una torre di vedetta munita di feritoie balestriere; elementi (le colonne di pietra) di una porzione del chiostro con il pozzo, ora non più centrale, ma addossato al muro della chiesa; la cripta del transetto di destra. Ed è proprio la cripta che più impressiona il visitatore. La cripta La maggior parte della cripta dell'antica chiesa è rimasta coinvolta nella demolizione settecentesca. Ma è rimasta intatta, ed è tuttora molto suggestiva, la parte corrispondente al transetto di destra. La cripta ospita ora le presunte reliquie dei martiri cristiani Primo e Feliciano, che in precedenza erano collocate sotto l'altare maggiore. Gli scavi archeologici del 1987, compiuti in una porzione dell'area dove sorgeva l'antica chiesa, hanno messo in luce i resti della parte centrale della cripta, che è risultata suddivisa in tre navate da pilastrini ottagoni con terminazione quadrata, in arenaria, su cui poggiavano capitelli a tronco di piramide. L'accesso si apriva sulla navata mediante due scale disposte simmetricamente. Si può ora entrare nell'area degli scavi attraverso la parte di cripta rimasta intatta. Il dibattito sulle origini Non ci sono documenti che ci indichino con certezza quando ebbe origine l'insediamento monastico e quando fu eretta l'Abbazia. Qualche indicazione sulla datazione dell'edificio ci viene dai responsabili degli scavi del 1987, i quali, pur premettendo che “nessun documento né dato materiale ci informa circa la cronologia dell'edificio”, così concludono: “Da un punto di vista strutturale la cripta nasce intorno alla chiesa, non appartiene cioè ad un edificio preesistente. Una datazione intorno alla prima metà del sec. XI potrebbe indizialmente essere proposta”. In questa sede accenniamo solo al fatto che sono numerosi i documenti antichi che riguardano, o comunque citano, l'Abbazia di San Benedetto in Alpe. Le fonti relative all'Abbazia risalgono agli inizi del sec. XI, anche se l'esistenza di un nucleo di eremiti in questa zona può essere assegnata a periodi precedenti. É documentato che, grazie a donazioni e acquisti, quella di San Benedetto in Alpe era nel XII sec. una delle più ricche e potenti abbazie dell'Appennino tosco-romagnolo. I possedimenti dell'Abbazia si estendevano nelle diocesi di Forlì, Forlimpopoli, Faenza e Firenze. Il monastero raggiunse l'apice della sua influenza durante il XIII sec., quando anche i fabbricati che lo componevano assunsero notevoli dimensioni: tutta l'area dell'attuale abitato di Poggio era infatti allora probabilmente occupata dalle celle dei monaci, le quali su due file formavano un borgo ai lati della strada rettilinea che ancora oggi parte dalla chiesa abbaziale. I secoli XIV e XV segnano la decadenza dell'Abbazia, che vede progressivamente diminuire i suoi monaci, finché nel 1499 l'Abate di San Benedetto consegna i pochi beni e i privilegi che ancora l'Abbazia possedeva nelle mani di Papa Alessandro VI. Come prima conseguenza viene soppresso nell'Abbazia l'Ordine benedettino e nell'anno 1500 l'unico monaco rimasto ha il solo compito delle funzioni proprie della chiesa. Così finisce la vita e l'autonomia della grande Abbazia di San Benedetto. Dopo essere passata all'amministrazione dell'Abbazia di Vallombrosa nel 1526 viene concessa per sempre al Capitolo della basilica di San Lorenzo”. Ridotta l'Abbazia a semplice parrocchia, i fabbricati furono trascurati. Le antiche pergamene Da queste pergamene del monastero si ha la prova dell'importanza e del prestigio che aveva l'Abbazia. Il fondo monastico è custodito presso l'Archivio Capitolare della Basilica di San Lorenzo in Firenze ed è collocato nella prima delle quattro grandi sezioni nelle quali è suddiviso l'archivio. Si tratta di 165 pergamene la maggior parte delle quali risalenti ai secoli dal XII al XV. A questo fondo vanno aggiunte due carte di enfiteusi custodite nell'Archivio Arcivescovile di Ravenna, una Bolla papale di Callisto II datata 1125, edita nel Bullarium Laurentianum e un atto del 1103 conservato presso l'Archivio di Stato di Firenze. Conclusione Conosciuta e studiata dagli storici, dai letterati e dagli storici dell'arte, l'Abbazia di San Benedetto in Alpe è poco nota al grande pubblico. Infine un consiglio per i visitatori. Per accedere al chiostro-cortile con pozzo (che oggi è un piccolo e delizioso giardino curato dalle signore Domenica e Giovanna Rabiti), e poi da lì alla cripta, bisogna entrare dalla prima porta a destra dell'ingresso della chiesa. Il cortile è anche un terrazzo per ammirare il panorama della valle e dei monti che la circondano. Non perdetevelo!!!
La Verna Nel maggio del 1213 il conte Orlando Cattani di Chiusi in Casentino fece dono a San Francesco del Monte della Verna. È l’inizio della storia di uno dei luoghi più profondamente intrisi di misticismo dell’Occidente. Anche a voler prescindere, e non è possibile, dall’impronta di San Francesco e della storia, La Verna è un luogo straordinario. La rupe calcarea culminante nel Monte Penna, alla sommità delle cui pareti occidentali si affaccia la cittadella monastica, si alza bruscamente dal letto di argille su cui galleggia: lo scoglio roccioso emerge, ed è ricoperto, dalla foresta, conservata nella sua ricchissima varietà da quasi otto secoli di gestione francescana che vedeva il bosco come parte del creato attraverso cui si manifestava l’opera di Dio, e come tale da rispettare e venerare. Perciò a La Verna il bosco è in gran parte rimasto com’era: una magnifica foresta mista di grandi faggi e abeti bianchi, e un ricco sottobosco che comprende agrifogli e tassi. Al Sacro Monte della Verna avvennero molti eventi miracolosi: fra gli altri, San Francesco qui ricevette le Stimmate durante la Quaresima del 1224. Vi accaddero anche numerosi fatti semplicemente prodigiosi, che però ben testimoniano dell’atmosfera che pervade il luogo: ad esempio, l’accoglienza che il Santo ebbe, appena giunto per la prima volta ai piedi della rupe, da una moltitudine di uccelli vocianti, che lo indussero a ritenere “volontà del Signore che noi abitiamo in questo monte solitario, perché tant’allegrezza e festa della nostra venuta dimostrano i nostri fratelli uccellini”; oppure la convivenza col falco che abitava la chioma del faggio del Sasso Spicco, dov’era il giaciglio di pietra del Santo, e che ogni giorno “col suo canto e il suo isbattersi lo chiamava al mattutino”. È un fatto che qui, più intensamente che altrove, si avverte la presenza di uno spiritus loci formidabile, dallo spessore immediatamente e intensamente percepibile. “Non est in toto sanctior orbe mons!” avverte, esclama e ammonisce la scritta sull’arco del portone che introduce al recinto conventuale se si sale per la mulattiera della Cappella degli Uccelli; e in questa sacralità la rupe e la foresta hanno un ruolo tutt’altro che trascurabile. La commistione fra misticismo e natura, fra pensiero e materia è qui quasi tangibile.
131 persone del luogo consigliano
La Verna (Santuario francescano)
45 Via del Santuario della Verna
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La Verna Nel maggio del 1213 il conte Orlando Cattani di Chiusi in Casentino fece dono a San Francesco del Monte della Verna. È l’inizio della storia di uno dei luoghi più profondamente intrisi di misticismo dell’Occidente. Anche a voler prescindere, e non è possibile, dall’impronta di San Francesco e della storia, La Verna è un luogo straordinario. La rupe calcarea culminante nel Monte Penna, alla sommità delle cui pareti occidentali si affaccia la cittadella monastica, si alza bruscamente dal letto di argille su cui galleggia: lo scoglio roccioso emerge, ed è ricoperto, dalla foresta, conservata nella sua ricchissima varietà da quasi otto secoli di gestione francescana che vedeva il bosco come parte del creato attraverso cui si manifestava l’opera di Dio, e come tale da rispettare e venerare. Perciò a La Verna il bosco è in gran parte rimasto com’era: una magnifica foresta mista di grandi faggi e abeti bianchi, e un ricco sottobosco che comprende agrifogli e tassi. Al Sacro Monte della Verna avvennero molti eventi miracolosi: fra gli altri, San Francesco qui ricevette le Stimmate durante la Quaresima del 1224. Vi accaddero anche numerosi fatti semplicemente prodigiosi, che però ben testimoniano dell’atmosfera che pervade il luogo: ad esempio, l’accoglienza che il Santo ebbe, appena giunto per la prima volta ai piedi della rupe, da una moltitudine di uccelli vocianti, che lo indussero a ritenere “volontà del Signore che noi abitiamo in questo monte solitario, perché tant’allegrezza e festa della nostra venuta dimostrano i nostri fratelli uccellini”; oppure la convivenza col falco che abitava la chioma del faggio del Sasso Spicco, dov’era il giaciglio di pietra del Santo, e che ogni giorno “col suo canto e il suo isbattersi lo chiamava al mattutino”. È un fatto che qui, più intensamente che altrove, si avverte la presenza di uno spiritus loci formidabile, dallo spessore immediatamente e intensamente percepibile. “Non est in toto sanctior orbe mons!” avverte, esclama e ammonisce la scritta sull’arco del portone che introduce al recinto conventuale se si sale per la mulattiera della Cappella degli Uccelli; e in questa sacralità la rupe e la foresta hanno un ruolo tutt’altro che trascurabile. La commistione fra misticismo e natura, fra pensiero e materia è qui quasi tangibile.
Camaldoli La storia di Camaldoli ha inizio pochi anni dopo la fatidica ricorrenza del Mille ed è legata alla figura di San Romualdo, monaco ravennate che predicò la Regola di San Benedetto. In viaggio verso la Badia di Santa Trinità, situata alla pendici del Pratomagno, fece sosta attorno al 1012 in una radura non lontana dal crinale appenninico. Lì, affascinato dalla solitaria bellezza della foresta e stimolato dalla concreta possibilità di edificare un ricovero per i pellegrini e i viandanti che frequentavano la zona, decise di edificarvi un eremo. L’Eremo fu consacrato nel 1027; nel 1080 l’ospizio divenne il Monastero. Fin dall’inizio della sua plurisecolare storia Camaldoli divenne un esempio tra i più significativi di come la gestione monastica abbia contribuito alla conservazione e alla propagazione di valori ambientali e naturalistici. Già nel 1080 Rodolfo, quarto priore dell’Eremo, codificò le consuetudini di vita della comunità dei Monaci Eremiti di Benedetto e Romualdo nel primo di quei Codici Camaldolesi che rivelano questi religiosi come solerti custodi e sensibili curatori del patrimonio forestale: carichi di tensioni mistiche e spirituali, ma anche attenti ai numerosi problemi tecnici, economici e sociali che la conservazione di quel patrimonio comportava. Nel 1520 la tipografia del Monastero stampò la Regola di Vita Eremitica: non si tratta di norme redatte solamente per disciplinare il lavoro, ma di parte integrante della Regola di Vita. La conservazione e l’arricchimento della foresta erano vissuti come atto d’amore verso la natura e il suo Creatore. In seguito, a partire dal XVI secolo, l’attività selvicolturale assunse caratteri in maggior misura volti alla produzione di legname, pur mantenendo una costante attenzione alla salute del bosco. I principali cambiamenti interessarono la composizione forestale: l’abete bianco era privilegiato – e bellissime abetine cingono ancora il Sacro Eremo – per il suo valore economico, ma anche perché simbolo di sapienza e di altezza in meditazione.
30 persone del luogo consigliano
Camaldoli Eremo station
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Camaldoli La storia di Camaldoli ha inizio pochi anni dopo la fatidica ricorrenza del Mille ed è legata alla figura di San Romualdo, monaco ravennate che predicò la Regola di San Benedetto. In viaggio verso la Badia di Santa Trinità, situata alla pendici del Pratomagno, fece sosta attorno al 1012 in una radura non lontana dal crinale appenninico. Lì, affascinato dalla solitaria bellezza della foresta e stimolato dalla concreta possibilità di edificare un ricovero per i pellegrini e i viandanti che frequentavano la zona, decise di edificarvi un eremo. L’Eremo fu consacrato nel 1027; nel 1080 l’ospizio divenne il Monastero. Fin dall’inizio della sua plurisecolare storia Camaldoli divenne un esempio tra i più significativi di come la gestione monastica abbia contribuito alla conservazione e alla propagazione di valori ambientali e naturalistici. Già nel 1080 Rodolfo, quarto priore dell’Eremo, codificò le consuetudini di vita della comunità dei Monaci Eremiti di Benedetto e Romualdo nel primo di quei Codici Camaldolesi che rivelano questi religiosi come solerti custodi e sensibili curatori del patrimonio forestale: carichi di tensioni mistiche e spirituali, ma anche attenti ai numerosi problemi tecnici, economici e sociali che la conservazione di quel patrimonio comportava. Nel 1520 la tipografia del Monastero stampò la Regola di Vita Eremitica: non si tratta di norme redatte solamente per disciplinare il lavoro, ma di parte integrante della Regola di Vita. La conservazione e l’arricchimento della foresta erano vissuti come atto d’amore verso la natura e il suo Creatore. In seguito, a partire dal XVI secolo, l’attività selvicolturale assunse caratteri in maggior misura volti alla produzione di legname, pur mantenendo una costante attenzione alla salute del bosco. I principali cambiamenti interessarono la composizione forestale: l’abete bianco era privilegiato – e bellissime abetine cingono ancora il Sacro Eremo – per il suo valore economico, ma anche perché simbolo di sapienza e di altezza in meditazione.
Castagnolo di Civitella di Romagna L’eremo è un luogo “santo” dove poter sostare, custo- dendo il silenzio, la meditazione, il riposo, il lavoro e praticando la disciplina spirituale che più può aiutarci. Qui hanno dimorato a lungo, in preghiera e condivisione di vita, annalena Tonelli, martire in terra d’africa e ma- ria Teresa Battistini, vibrante nella sua attesa di Dio e del prossimo. Secondo il loro spirito e quello dei grandi maestri che le hanno ispirate, l’eremo di giacobbe è un luogo segnato dall’incontro con il Cristo Crocifisso e risorto, aperto per questo ad ogni umana ricerca e passione per la verità e la salvezza dell’uomo.
Eremo di Giacobbe
Località Castagnolo
Castagnolo di Civitella di Romagna L’eremo è un luogo “santo” dove poter sostare, custo- dendo il silenzio, la meditazione, il riposo, il lavoro e praticando la disciplina spirituale che più può aiutarci. Qui hanno dimorato a lungo, in preghiera e condivisione di vita, annalena Tonelli, martire in terra d’africa e ma- ria Teresa Battistini, vibrante nella sua attesa di Dio e del prossimo. Secondo il loro spirito e quello dei grandi maestri che le hanno ispirate, l’eremo di giacobbe è un luogo segnato dall’incontro con il Cristo Crocifisso e risorto, aperto per questo ad ogni umana ricerca e passione per la verità e la salvezza dell’uomo.
Gamogna Antico complesso monastico immerso nel verde delle montagne, fondato da San Pier Damiani nel 1053, recentemente ristrutturato e gestito dalla Fraternità Monastica di Gerusalemme. Percorso di 2,7 km circa 1 ora con passo tranquillo - Dislivello in discesa mt 147. L'Eremo si trova nell'Alpe di San Benedetto, ai piedi del Monte Gamogna. E' raggiungibile per sentiero partendo da Ponte della Valle località Lutirano (Marradi) oppure sempre per sentiero dal Passo dell'Eremo (provinciale che unisce San Benedetto in Alpe a Marradi). Il percorso qui descritto è quello "di monte" e quindi da Passo dell'Eremo. In auto - Da San Benedetto in Alpe seguire le indicazioni per Marradi, risalire la stretta valle dell'Acquacheta, superare il Passo Peschiera e al chilometro 10,8 (cento metri prima del passo Eremo) parcheggiare l'auto. Ben visibile sulla strada l'indicazione per l'Eremo. Si scende la carrareccia che in poche decine di metri conduce al podere Canone (nel 2005 disabitato, iniziata la ristrutturazione ma non portata a termine) altezza m. 898.
Eremo di Gamogna
Gamogna Antico complesso monastico immerso nel verde delle montagne, fondato da San Pier Damiani nel 1053, recentemente ristrutturato e gestito dalla Fraternità Monastica di Gerusalemme. Percorso di 2,7 km circa 1 ora con passo tranquillo - Dislivello in discesa mt 147. L'Eremo si trova nell'Alpe di San Benedetto, ai piedi del Monte Gamogna. E' raggiungibile per sentiero partendo da Ponte della Valle località Lutirano (Marradi) oppure sempre per sentiero dal Passo dell'Eremo (provinciale che unisce San Benedetto in Alpe a Marradi). Il percorso qui descritto è quello "di monte" e quindi da Passo dell'Eremo. In auto - Da San Benedetto in Alpe seguire le indicazioni per Marradi, risalire la stretta valle dell'Acquacheta, superare il Passo Peschiera e al chilometro 10,8 (cento metri prima del passo Eremo) parcheggiare l'auto. Ben visibile sulla strada l'indicazione per l'Eremo. Si scende la carrareccia che in poche decine di metri conduce al podere Canone (nel 2005 disabitato, iniziata la ristrutturazione ma non portata a termine) altezza m. 898.

Eremo in provincia di Ravenna

Eremo il Pereo = Sant’Alberto Nel 988, di ritorno in Italia dopo dieci anni di permanenza in Catalogna, San Romualdo decise di fondare un eremo nella sua terra. Scelse una zona disabitata a nord di Ravenna. Vi era una vasta area valliva, all'interno della quale emergevano delle isole. Sull'isola (o forse penisola) del Pereo (toponimo di probabile origine greca peraiòs/péros = 'oltre' [il Po]) fondò l'eremo. La striscia di terra emergeva dalle acque vallive appena a ridosso dell'attuale argine sud del fiume Reno, ai confini con le Valli di Comacchio. Romualdo soggiornò nell'eremo più volte. Nell'autunno del 1001, Romualdo e l'imperatore Ottone III fondarono un monastero annesso all'eremo. Al monastero Ottone III unì un oratorio dedicato all'amico Adalberto, vescovo di Praga martirizzato in Polonia nel 997. Negli anni successivi fu aperto un hospitale per pellegrini ("romei") che provenivano dall'Alto Adriatico diretti a Roma. Nel monastero i chierici, tra cui San Romualdo, si prepararono per andare a portare la parola di Dio nell'Europa centrale (Boemia e paesi circostanti). Distrutto in età moderna, di esso restano alcuni frammenti decorativi conservati presso il Museo nazionale di Ravenna, nel secondo chiostro. L'ubicazione della chiesa di S. Adalberto, e di conseguenza del complesso monastico del Pereo, ci è nota grazie alla testimonianza del priore Giovanni Savini, il quale nel 1786, accluse all'«Inventario della chiesa priorale di S. Alberto» una mappa nella quale indicò con precisione il sito in cui in quel periodo giacevano i resti della chiesa. Secondo il Savini, l'edificio si trovava “nelle vicinanze del Po vecchio detto ora il Gattolo nella possessione de' (...) signori conti Capra detta il Pero, distante dal Po novo corrente meno di mezzo miglio e dalla chiesa presente miglia d'Italia andando verso il mare, circa due e mezzo”. Ora la distanza dal mare è di circa 10 chilometri.
6 persone del luogo consigliano
Sant'Alberto
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Eremo il Pereo = Sant’Alberto Nel 988, di ritorno in Italia dopo dieci anni di permanenza in Catalogna, San Romualdo decise di fondare un eremo nella sua terra. Scelse una zona disabitata a nord di Ravenna. Vi era una vasta area valliva, all'interno della quale emergevano delle isole. Sull'isola (o forse penisola) del Pereo (toponimo di probabile origine greca peraiòs/péros = 'oltre' [il Po]) fondò l'eremo. La striscia di terra emergeva dalle acque vallive appena a ridosso dell'attuale argine sud del fiume Reno, ai confini con le Valli di Comacchio. Romualdo soggiornò nell'eremo più volte. Nell'autunno del 1001, Romualdo e l'imperatore Ottone III fondarono un monastero annesso all'eremo. Al monastero Ottone III unì un oratorio dedicato all'amico Adalberto, vescovo di Praga martirizzato in Polonia nel 997. Negli anni successivi fu aperto un hospitale per pellegrini ("romei") che provenivano dall'Alto Adriatico diretti a Roma. Nel monastero i chierici, tra cui San Romualdo, si prepararono per andare a portare la parola di Dio nell'Europa centrale (Boemia e paesi circostanti). Distrutto in età moderna, di esso restano alcuni frammenti decorativi conservati presso il Museo nazionale di Ravenna, nel secondo chiostro. L'ubicazione della chiesa di S. Adalberto, e di conseguenza del complesso monastico del Pereo, ci è nota grazie alla testimonianza del priore Giovanni Savini, il quale nel 1786, accluse all'«Inventario della chiesa priorale di S. Alberto» una mappa nella quale indicò con precisione il sito in cui in quel periodo giacevano i resti della chiesa. Secondo il Savini, l'edificio si trovava “nelle vicinanze del Po vecchio detto ora il Gattolo nella possessione de' (...) signori conti Capra detta il Pero, distante dal Po novo corrente meno di mezzo miglio e dalla chiesa presente miglia d'Italia andando verso il mare, circa due e mezzo”. Ora la distanza dal mare è di circa 10 chilometri.
Bagnara di Romagna Santuario del Soccorso fu costruito negli anni 1766/1770 su disegno dell’architetto imolese Cosimo Morelli. Dall’anno successivo ebbero inizio le tradizionali processioni delle “Rogazioni” con la Madonna del Soccorso. L’esterno venne completato nel 1853 con la facciata del Ricciardelli. All’interno, l’altare e l’ancona sono in scagliola cotta a “finto marmo”, opera geniale del 1770, dei fratelli Della Quercia di Imola.
Chiesa Madonna del Soccorso
Via Madonna
Bagnara di Romagna Santuario del Soccorso fu costruito negli anni 1766/1770 su disegno dell’architetto imolese Cosimo Morelli. Dall’anno successivo ebbero inizio le tradizionali processioni delle “Rogazioni” con la Madonna del Soccorso. L’esterno venne completato nel 1853 con la facciata del Ricciardelli. All’interno, l’altare e l’ancona sono in scagliola cotta a “finto marmo”, opera geniale del 1770, dei fratelli Della Quercia di Imola.
Il Santuario della Madonna della Consolazione fu costruito per volontà dei massesi dal 1794 al 1813 sotto la direzione dell’architetto Zaccaria Facchini. Vi sorse accanto il cimitero comunale, quando la legge napoleonica volle che i cimiteri fossero costruiti fuori dai centri abitati, oggi uno dei cimiteri monumentali meglio conservati.
Santuario della Madonna della Consolazione
16 Via Cimitero
Il Santuario della Madonna della Consolazione fu costruito per volontà dei massesi dal 1794 al 1813 sotto la direzione dell’architetto Zaccaria Facchini. Vi sorse accanto il cimitero comunale, quando la legge napoleonica volle che i cimiteri fossero costruiti fuori dai centri abitati, oggi uno dei cimiteri monumentali meglio conservati.
Bagnacavallo Il convento di San Francesco, risalente al XIII secolo, è l'edificio conventuale di più antica fondazione della città di Bagnacavallo. Il complesso comprende la chiesa e il grande convento che ospita: la bella Sala Oriani o "Refettorio nuovo", il chiostro, lo scalone monumentale e le sale del primo piano (non restaurate) utilizzate come spazi espositivi, i sotterranei e il "solaio grande" detto anche Sala delle Capriate. Risalente alla metà del 1200, il convento di Bagnacavallo fu uno dei primi sorti dopo la morte di San Francesco. Considerato che i primi conventi vennero edificati in luoghi di forte passaggio, dobbiamo dedurre che Bagnacavallo al tempo fosse un importante snodo stradale e una tappa per i viandanti. Il complesso conventuale subì ristrutturazioni ed ampliamenti nel corso dei secoli, i più importanti dei quali avvenuti nel 1460 e nel 1667 (lavori di Andrea Galegati). Assunse l'aspetto attuale alla fine del 1700, con gli interventi dell'architetto faentino Gioacchino Tomba. Dopo la soppressione degli ordini religiosi dovuta agli editti napoleonici, l'edificio divenne in gran parte di proprietà pubblica. Dal 1875 al 1959 il convento fu sede delle scuole pubbliche e durante la seconda guerra mondiale gli immensi sotterranei vennero adibiti a rifugio per la popolazione. Solo una piccola parte dell'edificio, nel Novecento, era abitata dai frati minori conventuali. Questa parte, dopo il trasferimento dei religiosi in altre sedi, non è più accessibile al pubblico. La gran parte di proprietà è comunale, ed è stata ristrutturata e destinata ad ospitare eventi espositivi o incontri pubblici (per scoprirli clicca qui). Un'altra parte dell'edificio ospita invece l'Albergo Antico Convento San Francesco.
Antico Convento San Francesco
10 Via Luigi Cadorna
Bagnacavallo Il convento di San Francesco, risalente al XIII secolo, è l'edificio conventuale di più antica fondazione della città di Bagnacavallo. Il complesso comprende la chiesa e il grande convento che ospita: la bella Sala Oriani o "Refettorio nuovo", il chiostro, lo scalone monumentale e le sale del primo piano (non restaurate) utilizzate come spazi espositivi, i sotterranei e il "solaio grande" detto anche Sala delle Capriate. Risalente alla metà del 1200, il convento di Bagnacavallo fu uno dei primi sorti dopo la morte di San Francesco. Considerato che i primi conventi vennero edificati in luoghi di forte passaggio, dobbiamo dedurre che Bagnacavallo al tempo fosse un importante snodo stradale e una tappa per i viandanti. Il complesso conventuale subì ristrutturazioni ed ampliamenti nel corso dei secoli, i più importanti dei quali avvenuti nel 1460 e nel 1667 (lavori di Andrea Galegati). Assunse l'aspetto attuale alla fine del 1700, con gli interventi dell'architetto faentino Gioacchino Tomba. Dopo la soppressione degli ordini religiosi dovuta agli editti napoleonici, l'edificio divenne in gran parte di proprietà pubblica. Dal 1875 al 1959 il convento fu sede delle scuole pubbliche e durante la seconda guerra mondiale gli immensi sotterranei vennero adibiti a rifugio per la popolazione. Solo una piccola parte dell'edificio, nel Novecento, era abitata dai frati minori conventuali. Questa parte, dopo il trasferimento dei religiosi in altre sedi, non è più accessibile al pubblico. La gran parte di proprietà è comunale, ed è stata ristrutturata e destinata ad ospitare eventi espositivi o incontri pubblici (per scoprirli clicca qui). Un'altra parte dell'edificio ospita invece l'Albergo Antico Convento San Francesco.
Bagnacavallo L'Antica pieve di San Pietro in Sylvis di Bagnacavallo è del VII secolo ed è una delle pievi romaniche meglio conservate del territorio ravennate e un classico esempio di architettura esarcale. La basilica fu edificata probabilmente vicino ad un antico tempio romano dedicato a Giove. Il luogo in cui sorge potrebbe corrispondere al più orientale dei porti, lungo la riva sud delle paludi, usato dai pellegrini, intorno all'anno mille, per raggiungere Roma percorrendo la via dei Romei. La chiesa ha pianta rettangolare suddivisa in tre navate da semplici pilastri a "T" che sorreggono le arcate a tutto sesto. L'abside, che conserva affreschi databili al 1320 circa attribuiti al maestro Pietro da Rimini, è orientata a est, semicircolare all'interno e poligonale all'esterno. Altri affreschi, del XV secolo, sono attribuibili ad artisti di scuola ferrarese. Nel presbiterio è collocato un altare a cippo in marmo greco della fine del VI secolo; mentre nella cripta, del XI secolo, un altare a mensa del VI-VII secolo in marmo greco su colonnine. Il lapidario conserva mattoni manubriati romani, due plutei frammentari in arenaria e gli archi marmorei di un ciborio risalente all'VIII secolo.
Pieve of Saint Pietro in Silvis
51 Via Pieve-Masiera
Bagnacavallo L'Antica pieve di San Pietro in Sylvis di Bagnacavallo è del VII secolo ed è una delle pievi romaniche meglio conservate del territorio ravennate e un classico esempio di architettura esarcale. La basilica fu edificata probabilmente vicino ad un antico tempio romano dedicato a Giove. Il luogo in cui sorge potrebbe corrispondere al più orientale dei porti, lungo la riva sud delle paludi, usato dai pellegrini, intorno all'anno mille, per raggiungere Roma percorrendo la via dei Romei. La chiesa ha pianta rettangolare suddivisa in tre navate da semplici pilastri a "T" che sorreggono le arcate a tutto sesto. L'abside, che conserva affreschi databili al 1320 circa attribuiti al maestro Pietro da Rimini, è orientata a est, semicircolare all'interno e poligonale all'esterno. Altri affreschi, del XV secolo, sono attribuibili ad artisti di scuola ferrarese. Nel presbiterio è collocato un altare a cippo in marmo greco della fine del VI secolo; mentre nella cripta, del XI secolo, un altare a mensa del VI-VII secolo in marmo greco su colonnine. Il lapidario conserva mattoni manubriati romani, due plutei frammentari in arenaria e gli archi marmorei di un ciborio risalente all'VIII secolo.

Eremo in provincia di Rimini

La pieve di Santa Maria Assunta si trova a San Leo, in provincia di Rimini. È il più antico edificio di culto della città e del Montefeltro, rappresentando la prima testimonianza materiale della cristianizzazione della zona, operata da San Leone tra il III e il IV sec.. Secondo la tradizione fu proprio il santo dalmata che, esercitando la professione di tagliapietre, edificò la prima chiesa, dedicata all'Assunzione di Maria, la Dormitio Virginis. Grazie alla sua posizione, su una protuberanza rocciosa, sotto le navate sono ricavati due ambienti: la cripta e il cosiddetto Sacello di San Leone. Quest'ultimo conserva tracce di un'abside scavata nella roccia. Custodisce inoltre il fronte di un sarcofago, decorato dalla raffigurazione di due pavoni che si abbeverano al cantaro, che rappresenta la più antica testimonianza scultorea del complesso, probabilmente antecedente l'VIII sec., utilizzato nello strombo di una monofora. La datazione del ciborio presente nel presbiterio della pieve, (882), dedicato secondo tradizione dal Duca Orso alla Vergine, viene ritenuta valida per l'intera costruzione, anche se gli elementi romanici posticipano l'edificazione nell'attuale aspetto all'XI secolo. L'antica chiesa carolingia venne infatti danneggiata da un terremoto e ricostruita quasi completamente.
Pieve Santa Maria Assunta
La pieve di Santa Maria Assunta si trova a San Leo, in provincia di Rimini. È il più antico edificio di culto della città e del Montefeltro, rappresentando la prima testimonianza materiale della cristianizzazione della zona, operata da San Leone tra il III e il IV sec.. Secondo la tradizione fu proprio il santo dalmata che, esercitando la professione di tagliapietre, edificò la prima chiesa, dedicata all'Assunzione di Maria, la Dormitio Virginis. Grazie alla sua posizione, su una protuberanza rocciosa, sotto le navate sono ricavati due ambienti: la cripta e il cosiddetto Sacello di San Leone. Quest'ultimo conserva tracce di un'abside scavata nella roccia. Custodisce inoltre il fronte di un sarcofago, decorato dalla raffigurazione di due pavoni che si abbeverano al cantaro, che rappresenta la più antica testimonianza scultorea del complesso, probabilmente antecedente l'VIII sec., utilizzato nello strombo di una monofora. La datazione del ciborio presente nel presbiterio della pieve, (882), dedicato secondo tradizione dal Duca Orso alla Vergine, viene ritenuta valida per l'intera costruzione, anche se gli elementi romanici posticipano l'edificazione nell'attuale aspetto all'XI secolo. L'antica chiesa carolingia venne infatti danneggiata da un terremoto e ricostruita quasi completamente.
San Leo A San Francesco d'Assisi (1182-1226) è attribuita la fondazione del Convento di Sant'Igne, risalente al XIII sec.. L'8/5/1213, durante la sua missione apostolica, San Francesco sostò a San Leo ove erano iniziati i festeggiamenti per l'investitura a cavaliere di Montefeltrano II, figlio di Bonconte di Montefeltrano. Tra gli illustri personaggi presenti alla cerimonia vi era anche il Conte Orlando de' Cattani, signore di Rocca di Chiusi nel Casentino il quale gli offrì i propri possedimenti sul monte della Verna, luogo adatto alla riflessione e alla contemplazione, dove il Santo ricevette la Sacre Stimmate. La donazione venne effettuata in uso libero e redatta il 2/7/1274 dai figli del Conte Orlando, per rendere legale l'offerta. L'incontro tra il Santo e il suo benefattore avvenne in una stanza del Palazzo dei Conti Nardini, oggi adibita a cappella. La fresca e travolgente spiritualità di Francesco conquistò Bonconte di Montefeltrano che pensò bene di offrigli un luogo di sosta nel suo dominio: Santegna, una selva in aperta campagna, dinanzi all'altissima rupe ove si trova il suo castello, che oggi è nota a tutti come Sant'Igne. Nel corso dei secoli, sull'originaria denominazione di questo luogo è prevalsa la tradizione, riportata da San Bonaventura nella Leggenda Maggiore, che racconta dell'apparizione miracolosa del "sacro fuoco" (ignis=fuoco) che indicò a San Francesco il sentiero che conduceva al Monte Feretrio. Il luogo di Sant'Igne divenne presto Convento posto a capo della Custodia Feretrana: tra il 1215 e il 1223 venne edificata una piccola costruzione in pietra locale composta da due stanze adibite rispettivamente a dormitorio e a refettorio e da una piccola cappella dedicata alla Vergine. Nel 1230 la primitiva chiesa fu ampliata in un edificio con pianta a croce latina, coperto a capriate, fatta eccezione per la parte absidale che risultò voltata ad opera di maestranze locali. Nel 1244 la nuova chiesa francescana di Sant'Igne fu consacrata dal Vescovo Ugolino, come testimonia una lapide ritrovata nell'orto del convento “Nell'anno del Signore 1244 al tempo di Papa Innocenzo IV e di Ugolino Vescovo di San Leo”.
San Leo, Via Sant'Igne, celletta votiva
Via Sant'Igne
San Leo A San Francesco d'Assisi (1182-1226) è attribuita la fondazione del Convento di Sant'Igne, risalente al XIII sec.. L'8/5/1213, durante la sua missione apostolica, San Francesco sostò a San Leo ove erano iniziati i festeggiamenti per l'investitura a cavaliere di Montefeltrano II, figlio di Bonconte di Montefeltrano. Tra gli illustri personaggi presenti alla cerimonia vi era anche il Conte Orlando de' Cattani, signore di Rocca di Chiusi nel Casentino il quale gli offrì i propri possedimenti sul monte della Verna, luogo adatto alla riflessione e alla contemplazione, dove il Santo ricevette la Sacre Stimmate. La donazione venne effettuata in uso libero e redatta il 2/7/1274 dai figli del Conte Orlando, per rendere legale l'offerta. L'incontro tra il Santo e il suo benefattore avvenne in una stanza del Palazzo dei Conti Nardini, oggi adibita a cappella. La fresca e travolgente spiritualità di Francesco conquistò Bonconte di Montefeltrano che pensò bene di offrigli un luogo di sosta nel suo dominio: Santegna, una selva in aperta campagna, dinanzi all'altissima rupe ove si trova il suo castello, che oggi è nota a tutti come Sant'Igne. Nel corso dei secoli, sull'originaria denominazione di questo luogo è prevalsa la tradizione, riportata da San Bonaventura nella Leggenda Maggiore, che racconta dell'apparizione miracolosa del "sacro fuoco" (ignis=fuoco) che indicò a San Francesco il sentiero che conduceva al Monte Feretrio. Il luogo di Sant'Igne divenne presto Convento posto a capo della Custodia Feretrana: tra il 1215 e il 1223 venne edificata una piccola costruzione in pietra locale composta da due stanze adibite rispettivamente a dormitorio e a refettorio e da una piccola cappella dedicata alla Vergine. Nel 1230 la primitiva chiesa fu ampliata in un edificio con pianta a croce latina, coperto a capriate, fatta eccezione per la parte absidale che risultò voltata ad opera di maestranze locali. Nel 1244 la nuova chiesa francescana di Sant'Igne fu consacrata dal Vescovo Ugolino, come testimonia una lapide ritrovata nell'orto del convento “Nell'anno del Signore 1244 al tempo di Papa Innocenzo IV e di Ugolino Vescovo di San Leo”.
Il santuario della Madonna di Saiano di Poggio Torriana anticamente apparteneva al territorio e Parrocchia di Pietracuta, Diocesi del Montefeltro. Poi passò alla Parrocchia di S.Pietro di Montebello. La torre di Saiano, presenta diverse analogie sia strutturali che architettoniche con altre due torri presenti nella Val Marecchia e precisamente quella sita a Maciano, in comune di Pennabilli e quella di Cicognaia in frazione di Bascio1. La parte più importante del complesso è la Chiesa, meta di pellegrinaggi e luogo di preghiera sembra sin dal 1300. Nel 1356 si parla di un luogo sacro in cui si custodisce, venera e festeggia ogni anno la Madonna detta di Saiano. All’interno della Chiesa, dedicata alla Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, si trova una statua della Madonna in gesso (XVI sec) posta nell’altare maggiore con il bimbo seduto sulle sue ginocchia, in atto quasi di volersi separare dalla madre per venire da noi suoi fratelli. La tradizione racconta che quando la Madonna fu trasferita nella chiesetta di Montebello, miracolosamente più volte al mattino fu ritrovata a Saiano. Nelle cappelle laterali due affreschi della fine del 1500 (a destra la Madonna col bambino e a sinistra Sant’Antonio abate). II complesso di Saiano è molto suggestivo per il suo valore storico, il suo significato religioso e l’indiscutibile bellezza paesaggistica. Il Santuario è particolarmente caro alla gente della Valmarecchia e ricordato per tante grazie ricevute, in particolare quelle legate alla siccità e alla maternità.
Santuario Madonna di Saiano
14 Via Saiano
Il santuario della Madonna di Saiano di Poggio Torriana anticamente apparteneva al territorio e Parrocchia di Pietracuta, Diocesi del Montefeltro. Poi passò alla Parrocchia di S.Pietro di Montebello. La torre di Saiano, presenta diverse analogie sia strutturali che architettoniche con altre due torri presenti nella Val Marecchia e precisamente quella sita a Maciano, in comune di Pennabilli e quella di Cicognaia in frazione di Bascio1. La parte più importante del complesso è la Chiesa, meta di pellegrinaggi e luogo di preghiera sembra sin dal 1300. Nel 1356 si parla di un luogo sacro in cui si custodisce, venera e festeggia ogni anno la Madonna detta di Saiano. All’interno della Chiesa, dedicata alla Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, si trova una statua della Madonna in gesso (XVI sec) posta nell’altare maggiore con il bimbo seduto sulle sue ginocchia, in atto quasi di volersi separare dalla madre per venire da noi suoi fratelli. La tradizione racconta che quando la Madonna fu trasferita nella chiesetta di Montebello, miracolosamente più volte al mattino fu ritrovata a Saiano. Nelle cappelle laterali due affreschi della fine del 1500 (a destra la Madonna col bambino e a sinistra Sant’Antonio abate). II complesso di Saiano è molto suggestivo per il suo valore storico, il suo significato religioso e l’indiscutibile bellezza paesaggistica. Il Santuario è particolarmente caro alla gente della Valmarecchia e ricordato per tante grazie ricevute, in particolare quelle legate alla siccità e alla maternità.
Eremo Madonna del Faggio di Monte Carpegna Tra i pascoli del monte, un giorno, due pastorelli furono aiutati dall'intervento miracoloso della Madonna. Una immagine fu trovata appesa ad un faggio dopo l'apparizione e si volle trasportarla a valle, in paese, per poterla onorare a dovere. Miracolosamente il giorno dopo l'immagine sacra si trovava di nuovo sul faggio. Era segno che si doveva erigere un santuario in quel luogo e dedicarlo alla Vergine, che da allora sul Carpegna è la Vergine del Faggio. La chiesa che esisteva già nel 1200, come testimoniano documenti, era ben diversa da com'è attualmente; anticamente era una semplice celletta e venne anche chiamata Eremo di Santa Maria della Cella. L'intervento di ristrutturazione più recente risale al secondo dopoguerra e questi interventi hanno purtroppo portato alla completa distruzione dell'antico originario edificio del XIII sec..Nel santuario è conservata una statua lignea della Madonna, probabilmente antica quanto la celletta. Alcune testimonianze del 1578, sulla necessità di un suo restauro, ce la fanno datare sicuramente molto prima di quella data. La vetta più alta del Montefeltro, Monte Carpegna (m. 1415), presenta in una insenatura del suo vasto altopiano una piccola Chiesa con annesso Eremo dedicata alla Madonna del Faggio. Non si hanno informazioni circa la sua origine e il motivo che determinò una sentita devozione e venerazione della sacra statua scolpita su legno di faggio. Le notizie più antiche, dedotte da alcuni Atti notarili del 1205, parlano di una chiesetta, detta "S. Maria della Cella in Monteboaggine", affidata ai Benedettini dell'Abbazia di S. Maria in Mutino, l'attuattuale Monastero di Piandimeleto. Nel 1574 risulta che l'Abbazia e le sue dipendenze erano passate al Clero secolare e che la suddetta "CeIla" del Monte Carpegna, riscuoteva un considerevole pellegrinaggio, tanto da autorizzare la celebrazione della S. Messa almeno una volta al mese e in tutte le festività Mariane. Già in quel periodo, come confermato dalla Visita del vescovo Sormani, vi abitavano, nei pressi, un Rettore, un converso e alcuni addetti. Nel 1635 venne affidata, assieme all'Abbazia del Mutino, al Capitolo Feretrano, che ne assicurò la custodia alla presenza di un Eremita. La Chiesetta, dotata anche di alcuni beni, subì nel corso dei secoli modifiche e lavori di ampliamento, come la costruzione del Campanile e negli anni del 1950 la ristrutturazione dei vecchi locali adiacenti, con l'aggiunta di un portico che unisce l'ingresso della Chiesa a quello dell'Eremo. In questi anni tutta la zona, prima sfruttata soprattutto dalla pastorizia è diventata ora meta di turismo, invernale: con l'installazione di due sciovie, ed estiva per ossigenazione. Questo afflusso di turisti, che amano anche visitare e pregare dinanzi alla venerata Immagine, ha suscitato nuove esigenze sia pastorali che di ristrutturazione dei locali. Così nel 1997, con l'apporto di numerosi benefattori, si iniziarono importanti restauri al Santuario e all'intero complesso dei locali per rendere, il tutto un luogo di rispettoso eremitaggio di raccoglimento e preghiera, che non può essere trasformato in sola area vacanziera. Ciò ha portato anche ad un ampliamento della strada di accesso e dei piazzali, così da collegare l'Eremo al servizio di ristoro presente nelle vicinanze, ma sempre nel rispetto dell'area religiosa. Attualmente il servizio religioso è assicurato dal Parroco della Parrocchia di Monteboaggine, nella cui giurisdizione è inserito lo stesso Santuario. La festa più grande, che vede un afflusso rilevante di pellegrini, si celebra la domenica dopo l'Assunzione, come da antichissima consuetudine. Il Santuario è pronto nella sua rinnovata bellezza per essere valorizzato dai pellegrini che vogliono recarvisi a pregare, a meditare, a confessarsi, a ritrovare il silenzio e il raccoglimento. Dinnanzi al Santuario è stata posta una pregevole "Via Crucis" opera dello Scultore Paolo Soro, cosi da costituire una ideale via di meditazione e di accesso alla chiesa. Nel Santuario poi sono stati posti sei pregevoli affreschi opera del Pittore Max Radicioni che illustrano i fatti principali della vita di Maria SS.ma. Adiacente al Santuario c'è l'Eremo vero e proprio: cioè alcune stanze per chi vuole ritirarsi in preghiera, usufruendo dei locali predisposti allo scopo.
Eremo di Madonna del Faggio, monte Carpegna
1 Località Eremo
Eremo Madonna del Faggio di Monte Carpegna Tra i pascoli del monte, un giorno, due pastorelli furono aiutati dall'intervento miracoloso della Madonna. Una immagine fu trovata appesa ad un faggio dopo l'apparizione e si volle trasportarla a valle, in paese, per poterla onorare a dovere. Miracolosamente il giorno dopo l'immagine sacra si trovava di nuovo sul faggio. Era segno che si doveva erigere un santuario in quel luogo e dedicarlo alla Vergine, che da allora sul Carpegna è la Vergine del Faggio. La chiesa che esisteva già nel 1200, come testimoniano documenti, era ben diversa da com'è attualmente; anticamente era una semplice celletta e venne anche chiamata Eremo di Santa Maria della Cella. L'intervento di ristrutturazione più recente risale al secondo dopoguerra e questi interventi hanno purtroppo portato alla completa distruzione dell'antico originario edificio del XIII sec..Nel santuario è conservata una statua lignea della Madonna, probabilmente antica quanto la celletta. Alcune testimonianze del 1578, sulla necessità di un suo restauro, ce la fanno datare sicuramente molto prima di quella data. La vetta più alta del Montefeltro, Monte Carpegna (m. 1415), presenta in una insenatura del suo vasto altopiano una piccola Chiesa con annesso Eremo dedicata alla Madonna del Faggio. Non si hanno informazioni circa la sua origine e il motivo che determinò una sentita devozione e venerazione della sacra statua scolpita su legno di faggio. Le notizie più antiche, dedotte da alcuni Atti notarili del 1205, parlano di una chiesetta, detta "S. Maria della Cella in Monteboaggine", affidata ai Benedettini dell'Abbazia di S. Maria in Mutino, l'attuattuale Monastero di Piandimeleto. Nel 1574 risulta che l'Abbazia e le sue dipendenze erano passate al Clero secolare e che la suddetta "CeIla" del Monte Carpegna, riscuoteva un considerevole pellegrinaggio, tanto da autorizzare la celebrazione della S. Messa almeno una volta al mese e in tutte le festività Mariane. Già in quel periodo, come confermato dalla Visita del vescovo Sormani, vi abitavano, nei pressi, un Rettore, un converso e alcuni addetti. Nel 1635 venne affidata, assieme all'Abbazia del Mutino, al Capitolo Feretrano, che ne assicurò la custodia alla presenza di un Eremita. La Chiesetta, dotata anche di alcuni beni, subì nel corso dei secoli modifiche e lavori di ampliamento, come la costruzione del Campanile e negli anni del 1950 la ristrutturazione dei vecchi locali adiacenti, con l'aggiunta di un portico che unisce l'ingresso della Chiesa a quello dell'Eremo. In questi anni tutta la zona, prima sfruttata soprattutto dalla pastorizia è diventata ora meta di turismo, invernale: con l'installazione di due sciovie, ed estiva per ossigenazione. Questo afflusso di turisti, che amano anche visitare e pregare dinanzi alla venerata Immagine, ha suscitato nuove esigenze sia pastorali che di ristrutturazione dei locali. Così nel 1997, con l'apporto di numerosi benefattori, si iniziarono importanti restauri al Santuario e all'intero complesso dei locali per rendere, il tutto un luogo di rispettoso eremitaggio di raccoglimento e preghiera, che non può essere trasformato in sola area vacanziera. Ciò ha portato anche ad un ampliamento della strada di accesso e dei piazzali, così da collegare l'Eremo al servizio di ristoro presente nelle vicinanze, ma sempre nel rispetto dell'area religiosa. Attualmente il servizio religioso è assicurato dal Parroco della Parrocchia di Monteboaggine, nella cui giurisdizione è inserito lo stesso Santuario. La festa più grande, che vede un afflusso rilevante di pellegrini, si celebra la domenica dopo l'Assunzione, come da antichissima consuetudine. Il Santuario è pronto nella sua rinnovata bellezza per essere valorizzato dai pellegrini che vogliono recarvisi a pregare, a meditare, a confessarsi, a ritrovare il silenzio e il raccoglimento. Dinnanzi al Santuario è stata posta una pregevole "Via Crucis" opera dello Scultore Paolo Soro, cosi da costituire una ideale via di meditazione e di accesso alla chiesa. Nel Santuario poi sono stati posti sei pregevoli affreschi opera del Pittore Max Radicioni che illustrano i fatti principali della vita di Maria SS.ma. Adiacente al Santuario c'è l'Eremo vero e proprio: cioè alcune stanze per chi vuole ritirarsi in preghiera, usufruendo dei locali predisposti allo scopo.

Eremo della Repubblica di San Marino

San Marino Marino trova sul Titano il suo primo rifugio, quello che oggi è venerato come Sacello: un letto scavato nella roccia, testimonianza di una vita semplice e raccolta. La solitudine del luogo, le penitenze e la vita austera temprano il suo spirito rendendolo un convincente annunciatore del Vangelo e un punto di riferimento per la comunità che ben presto si raduna attorno a questo personaggio dal naturale carisma. Fu qui che si gettarono le basi per la fondazione della più antica repubblica del mondo. Che fu opera di un rifugiato. Immersa nel verde, vediamo sulla sinistra una piccola chiesetta e un sentiero di scale sulla parete del monte. La cappella, con il suo stile semplice in arenaria del monte, racchiude un altare e un dipinto raffigurante l’amato santo e le tre torri sul cucuzzolo del Titano, sormontate dalle piume come simbolo di libertà. Le tre piume si librano nel cielo e non appartengono a nessuno tranne che a se stesse e sono lo spirito guida dei sammarinesi.
Sacello del Santo Marino
San Marino Marino trova sul Titano il suo primo rifugio, quello che oggi è venerato come Sacello: un letto scavato nella roccia, testimonianza di una vita semplice e raccolta. La solitudine del luogo, le penitenze e la vita austera temprano il suo spirito rendendolo un convincente annunciatore del Vangelo e un punto di riferimento per la comunità che ben presto si raduna attorno a questo personaggio dal naturale carisma. Fu qui che si gettarono le basi per la fondazione della più antica repubblica del mondo. Che fu opera di un rifugiato. Immersa nel verde, vediamo sulla sinistra una piccola chiesetta e un sentiero di scale sulla parete del monte. La cappella, con il suo stile semplice in arenaria del monte, racchiude un altare e un dipinto raffigurante l’amato santo e le tre torri sul cucuzzolo del Titano, sormontate dalle piume come simbolo di libertà. Le tre piume si librano nel cielo e non appartengono a nessuno tranne che a se stesse e sono lo spirito guida dei sammarinesi.